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IMMIGRAZIONE

La Cei afferma il diritto di vivere a casa propria

“Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza (…) limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza”. Lo scrivono i vescovi italiani nel documento “Lettera alle comunità cristiane a 25 anni dal documento ‘Ero forestiero e mi avete ospitato’ (1993-2018)”.

Ecclesia 17_05_2018
Immigrati

“Riconosciamo che esistono dei limiti nell’accoglienza (…) limiti imposti da una reale possibilità di offrire condizioni abitative, di lavoro e di vita dignitose. Siamo, inoltre, consapevoli che il periodo di crisi che sta ancora attraversando il nostro Paese rende più difficile l’accoglienza”. Sono i vescovi italiani a parlare in questi termini, a proposito dei flussi migratori diretti verso l’Italia, in un testo appena pubblicato, la “Lettera alle comunità cristiane a 25 anni dal documento ‘Ero forestiero e mi avete ospitato’ (1993-2018)”. È alla luce di questa considerazione che la Conferenza episcopale italiana, pur continuando a usare il termine “accoglienza” per un fenomeno – quello migratorio – che ha piuttosto a che vedere con il mercato del lavoro e con le leggi economiche, esorta i cristiani ad affrontare le migrazioni “con realismo e intelligenza, con creatività e audacia, e al tempo stesso, con prudenza, evitando soluzioni semplicistiche”.

“Ciò che ci spinge a prendere nuovamente la parola – spiegano i vescovi italiani nella lettera – è il profondo cambiamento che in questi anni continua a segnare il fenomeno migratorio nel nostro paese”: nel 1993 gli immigrati regolari erano meno di un milione, mentre nel 2018 hanno raggiunto i cinque milioni e questo anche se – dice la Cei – l’incremento si è fermato e “nell’ultimo triennio il numero degli immigrati è rimasto pressoché stabile”.

Che da tre anni il numero degli immigrati sia pressochè stabile è una affermazione inaspettata, sorprendente. Proprio negli ultimi tre anni infatti, dal 2015 al 2017, in Italia sono arrivati più di 450.000 emigranti. L’affermazione tuttavia si spiega con il fatto che la Cei li registra non come tali, bensì come richiedenti asilo e rifugiati: non del tutto a torto, in effetti, dal momento che gran parte degli immigrati illegali, ormai quasi tutti, chiedono asilo, dicendosi profughi, per non essere respinti (sappiamo tuttavia che le richieste accolte sono poche migliaia ogni anno). 

Far parlare la ragione, “accogliere” se, quando e chi è possibile integrare, offrendo condizioni di vita dignitose, quindi prima di tutto un lavoro regolare che dia autonomia e indipendenza. È questa dunque la nuova raccomandazione della Cei, che poi esorta a non temere gli estranei, a non rinunciare “all’incontro con l’altro”, a leggere le migrazioni come “segno dei tempi”, a interrogarsi sulle cause che inducono a emigrare  “anche se – e forse proprio perché – oggi appare più difficile che mai riuscire a distinguere quanti fuggono da guerre e persecuzioni da quanti sono mossi dalla fame o dai cambiamenti climatici”, a “prendere coscienza dei meccanismi generati da un’economia che uccide e dell’inequità che genera violenza”, a colpire “poteri e persone che prosperano sulla morte degli altri, cominciando dai trafficanti di armi fino a quelli di esseri umani”.

Sarebbe stato di conforto, soprattutto per le vittime di ingiustizia, trovare nel testo un ammonimento a chi usa le armi, a chi genera violenza, un accenno ai fattori che “nei paesi di origine dei migranti ne motivano la partenza”, ai rimedi che lì vanno cercati e adottati per “ridurre la forte disuguaglianza economica e sociale oggi esistente”, invece di limitarsi a chiedere con urgenza il nostro impegno in tal senso, come se dipendessero da noi il danno e il rimedio. 

Sarebbe stato di conforto tanto più che i vescovi nella lettera si preoccupano di ricordare che per ogni uomo “il primo diritto è quello di non dover essere costretti a lasciare la propria terra” e dunque, per sostenere quel diritto, occorre avere ben chiaro a chi e a che cosa attribuire la responsabilità di violarlo.

Il diritto di vivere in libertà, sicurezza e dignità a casa propria. È un diritto primario, talmente indiscutibile e irrinunciabile da essere stato superfluo enunciarlo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.  San Giovanni Paolo II lo aveva richiamato nel 1998, parlando al IV Congresso mondiale delle migrazioni: “diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione”. Lo ha ribadito Papa Benedetto XVI nel 2013, nel suo messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato: “prima ancora che il diritto a emigrare, va riaffermato il diritto a non emigrare, cioè a essere in condizione di rimanere nella propria terra”.

Oggi tale diritto è negato a 60 milioni di profughi in fuga da guerre e persecuzioni, 40 milioni sfollati e 20 rifugiati. Ed è negato a quasi un miliardo di emigranti: 257 milioni all’estero e 740 milioni all’interno dei rispettivi paesi. Di loro Papa Benedetto XVI ha detto: “molte migrazioni sono conseguenza di precarietà economica, di mancanza dei beni essenziali, di calamità naturali, di guerre e disordini sociali. Invece di un pellegrinaggio animato dalla fiducia, dalla fede e dalla speranza, migrare diventa allora un ‘calvario’ per la sopravvivenza, dove uomini e donne appaiono più vittime che autori e responsabili della loro vicenda migratoria. Così, mentre vi sono migranti che raggiungono una buona posizione e vivono dignitosamente, con giusta integrazione nell’ambiente d’accoglienza, ve ne sono molti che vivono in condizioni di marginalità e, talvolta, di sfruttamento e di privazione dei fondamentali diritti umani, oppure che adottano comportamenti dannosi per la società in cui vivono. Il cammino di integrazione comprende diritti e doveri, attenzione e cura verso i migranti perché abbiano una vita decorosa, ma anche attenzione da parte dei migranti verso i valori che offre la società in cui si inseriscono”.  I 257 milioni di emigranti all’estero includono cinque milioni di italiani.