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30 ANNI FA LO SBARCO

La carità (cristiana) che aprì le porte agli albanesi

30 anni fa lo sbarco dei 25mila esuli albanesi a Brindisi. Lo Stato rispose impreparato, le famiglie aprirono le porte di casa grazie all'impegno della Chiesa cattolica per offrire ai fuggiaschi del regime comunista alcuni giorni di ristoro. Ma oggi nel nostro Paese si ignora da quale inferno scappassero quei poveretti.  

Attualità 09_03_2021

Ricorrono in questi giorni i 30 anni dello storico sbarco dei cittadini albanesi a Brindisi. Scesero dalle navi stracolme oltre 25mila persone che incontrarono subito l'accoglienza degli italiani. La Bussola pubblica il ricordo di quei giorni da parte di un testimone d'eccezione, Padre Bruno De Cristofaro, dell'Opera Santuario "N.S. di Fatima". 

Brindisi, 7 marzo 1991. Nel giro di alcune ore, diverse carrette del mare stipate di gente all’inverosimile approdano nel porto della cittadina pugliese. Il giorno dopo, sulle banchine, si contano più di 25.000 esuli albanesi di ogni condizione ed estrazione sociale. Lo Stato italiano e le autorità locali non sanno che pesci prendere. Solo alla sera dell’8, dietro pressione del Vescovo, la Prefettura ordina l’apertura delle scuole per dare un primo riparo ai profughi, che a quel punto hanno già passato una notte all’addiaccio. Non basta: queste persone - in molti casi famiglie con bambini - hanno bisogno di tutto e le strutture scolastiche non hanno nemmeno servizi igienici adeguati. Ed è qui che entra in gioco la buona gente di Brindisi.

All’epoca dei fatti avevo sei anni, ho pochi ricordi ma nitidi. L’atrio e le aule della mia scuola erano brulicanti di profughi e di personale. Mio padre mi aveva portato lì con sé perché, assieme a tantissime altre famiglie del quartiere, ci preparavamo ad accogliere in casa gli albanesi che potevamo. Si trattava di offrire per almeno qualche giorno un alloggio pulito, caldo e accogliente a chi poi è partito, magari per il Nord, in cerca di un lavoro.

So che sarò grato tutta la vita alla mia famiglia e alla mia città per quello che vidi in quei giorni. Anime che fuggivano dalla spietata utopia del Sistema perfetto, trovarono rifugio fra le braccia imperfette di una generosità libera e disarmata. Per di più, per nulla favorita da uno Stato che - di fatto - aveva abbandonato la città a sé stessa. In quei giorni, Brindisi diventò l’emblema inconsapevole della irriducibile antinomia fra statalismo marxista e carità cristiana (senza il suffisso “demo”).

Non si può infatti comprendere cosa accadde di qua dell’Adriatico, senza ricordare cosa succedeva dall’altra parte. Come non chiedersi cosa spingesse quegli uomini ad abbandonare la patria, la casa e gli affetti, per di più sapendo di rischiare - per la legge albanese - dai dieci anni di detenzione fino alla pena capitale per il reato di espatrio?

In Italia, la risposta a questa domanda la conoscono pochissimi. E ciò per il semplice motivo che la stessa ideologia che in Albania deteneva il monopolio del potere, mutatis mutandis, nel nostro Paese deteneva il monopolio della cultura (e lo detiene tuttora, anche se nella sua versione più “liberal”).

La costa italiana e quella albanese, nel punto più vicino, distano solo 70 chilometri (dico 70 chilometri!), ma sulla nostra Penisola, intere generazioni di studenti non hanno neanche mai sentito parlare di quella che gli storici hanno definito la più feroce dittatura comunista del secolo scorso, la più ortodossa applicazione reale degli ideali di Marx. Basterebbe un sondaggio in cui si chiedesse agli italiani di pronunciare correttamente il nome di Enver Hoxha per scoprire che il criminale sanguinario che ha governato la Repubblica Popolare Socialista d'Albania dal ’44 all’85, praticamente dietro l’angolo è un perfetto sconosciuto.

All’epoca dei fatti che stiamo ricordando, Hoxha era morto da sei anni, ma la dittatura era ancora lungi dal cedere il passo alla democrazia, nonostante la caduta del Muro di Berlino e le tanto pubblicizzate elezioni (proprio) del marzo ’91. Basti ricordare che negli stessi mesi, le proteste pubbliche contro il regime erano sempre più frequenti ma regolarmente represse nel sangue, che gli oppositori politici erano ancora detenuti in condizioni subumane, che le torture dei suddetti erano all’ordine del giorno «con la privazione di dita, mani e occhi» (riferiscono i testimoni), e infine che la fuga dall’Albania anziché diminuire in vista di tempi migliori era diventata un vero e proprio fenomeno di massa.

A quel tempo, il longevo regime albanese aveva già una storia niente male alle spalle: era infatti sopravvissuto a tutti i suoi alleati (scaricati ogni volta in tempo utile): Tito, Stalin e Mao. E fondava la propria solidità in primo luogo ovviamente sulla violenza: questa era pacificamente codificata nella Costituzione e nel Codice Penale, sistematicamente praticata nelle carceri e nei numerosi campi di concentramento, ed esercitata con solerzia dall’onnipresente Sigurimi (la polizia politica). In secondo luogo, a garantire la robustezza del sistema comunista albanese era l’isolamento totale dalle altre nazioni (un po' come l’attuale Corea del Nord, per intenderci), isolamento incrinato da Radio Vaticana prima e dalle emittenti televisive italiane poi.

Ma il vero “capolavoro” di Hoxha, l’opera di cui più andava fiero, consisté nel creare «il primo stato ateo del pianeta». Questo significò negli anni: confisca di scuole, orfanotrofi e ospedali cattolici, chiusura delle case editrici, espropriazioni, espulsioni, arresti sommari di sacerdoti e laici, processi farsa, scioglimento degli ordini religiosi e di tutte le associazioni cattoliche, distruzione o riconversione di chiese e moschee in teatri, palestre, piscine, etc. L’insegnamento del materialismo dialettico fu imposto nelle scuole di ogni ordine e grado: l’obiettivo non era semplicemente l’ateismo, ma la cancellazione dalla mente dei piccoli dell’idea stessa di Dio.

Non si contano i vescovi e sacerdoti cattolici, le religiose, i ministri di altre confessioni e i fedeli cristiani barbaramente uccisi o torturati con la più crudele fantasia sotto il regime comunista albanese.

E a proposito della succitata comunanza ideologica fra quella dittatura e l’egemonia culturale nostrana, val la pena chiudere con un episodio che può farci riflettere. Ancora nel 1989, l’Accademia delle Scienze albanese pubblicava un nuovo Dizionario enciclopedico che, nonostante il dichiarato auspicio di «presentare tutto lo scibile», non contemplava affatto voci come “Bibbia”, “Gesù Cristo”, “Chiesa”, “Papa”. Alla voce “religione” però si leggeva: «un fenomeno passeggero, sorto anche in Albania, come purtroppo ovunque nel passato, in condizioni di sottosviluppo economico, di oppressione sociale, di ignoranza».

Ebbene, alzi la mano chi, avendo frequentato la scuola statale italiana, non ha avuto almeno un docente che - con candore - non abbia descritto nei medesimi termini la fede cattolica. La stessa fede che prima dell’avvento delle ideologie ha innervato per secoli la vera cultura italiana ed europea, la cultura della dignità di ogni persona umana e dell’indisponibilità della vita, la cultura che quel giorno di trent’anni fa a Brindisi, ha spinto tutti, credenti o no, ad aprire le porte della propria casa a chi fuggiva dall’inferno.