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TEOLOGI

La caccia alle streghe di Enzo Bianchi

In un articolo descrive i precedenti pontificati come un "regime" che reprimeva ogni dissenso ed esalta una presunta rottura con il passato effettuata da papa Francesco. In realtà è il priore di Bose a "rompere" con il magistero della Chiesa fino a ridurre Gesù a solo uomo. E il matrimonio a un mero tentativo.

Ecclesia 14_10_2014
Monastero di Bose

Mi rincresce dover tornare a parlare di Enzo Bianchi. Innanzitutto, perché costui non si ravvede mai, anzi è insofferente a ogni critica e cerca di intimidirmi con la minaccia delle querele. Ma domenica ha pubblicato un ennesimo articolo mistificatorio sulla Stampa di Torino, (clicca qui) che è proprio il giornale per il quale scrisse l’articolo contro papa Giovanni Paolo II che due anni fa mi indusse a contestarlo sulla “Bussola Quotidiana” (clicca qui).

L’articolo inizia con un tono trionfalistico che tanto mi ricorda quel “bollettino della vittoria” che leggevo in una lapide apposta nell’ingresso del mio liceo a Roma. Nel bollettino il generale Armando Diaz diceva: «La guerra contro l’Austria-Ungheria, che l’Esercito italiano iniziò il 24 maggio del 1915, è vinta […] I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza».

Con la medesima enfasi militare Bianchi scrive: «Oggi, dopo venti mesi di pontificato, possiamo dire che si è creato un altro clima nel tessuto ecclesiale: un clima di libertà di parola nel quale con parresia ogni cattolico, vescovo o semplice fedele, può lasciar parlare la propria coscienza e dire quello che pensa, senza essere subito messo a tacere, censurato o addirittura punito, come avveniva negli ultimi decenni». Dunque, vittoria indiscutibile del nuovo corso profetizzato da Bianchi e attuato finalmente da Bergoglio. Ora sì che si può parlare liberamente, e dunque tutti devono essere d’accordo nel lodare il Papa del dialogo e della pacifica discussione fraterna.

E le truppe sconfitte? Ci sono anche quelle: sono “le forze oscure della reazione in agguato”, i reazionari, i conservatori, i nostalgici del tempo nel quale la Chiesa condannava qualcuno nominatim o almeno denunciava gli errori che venivano diffusi in materia di fede e di morale. Sono, secondo Bianchi, «i nemici del Papa», e li descrive così: «Persone che non si limitano a criticarlo con rispetto, come avveniva con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, ma si spingono fino a disprezzarlo. […] Conosciamo da tempo costoro come persone inclini a inseguire le proprie ipotesi ecclesiastiche anziché l’oggettività della grande tradizione cattolica nella quale vale il primato del vangelo». Insomma, i nemici del Papa sono miei nemici, or che il Papa è mio amico (non come quelli di prima, avvezzi a censurare). Curioso che chi di mestiere fa il fabbricatore di fantasiose «ipotesi ecclesiastiche» se la prenda con chi si richiama, appunto, all’«oggettività della grande tradizione cattolica». Ma poi, conoscendo Bianchi, si capisce che egli vuol riferirsi alla tradizione del modernismo teologico, dove il primato non è, come lui dice, quello del Vangelo ma quello dell’ecumenismo storicistico insegnato dal suo maestro Hans Küng.

Come testimonial dell’avvento di questa nuova Chiesa della riforma che solo l’elezione di papa Francesco ha reso possibile, Bianchi cita il cardinale Ravasi, un prolifico saggista (da sempre scrive per il Sole24Ore) che deve la porpora a Giovanni Paolo II ma non vuol sentir parlare della sua enciclica Fides et ratio, considerandola un «passo indietro» rispetto al cammino del dialogo con la cultura di oggi. Poi cita il cardinale Martini, anche lui nominato arcivescovo di Milano da Giovanni Paolo II, eppure aspramente critico nei suoi confronti per aver confermato l’enciclica Humanae vitae di Paolo VI con l’esortazione apostolica Familiaris consortio, invece di abolirla, tanto da farsi acclamare dalla Stampa di Torino (di nuovo!) come l’auspicabile papa del futuro.

Bianchi non aggiunge a questi due nomi quelli di tanti altri che in questi giorni, durante il Sinodo sulla famiglia, chiedono di nuovo, con gli stessi argomenti di Martini, l’abolizione di questi due documenti del Magistero e la damnatio memoriae dei papi che li hanno promulgati. Non li cita, perché non ce n’è bisogno, basta il riferimento a se stesso come guida spirituale dell’ala marciante di una Chiesa che si rinnova affrettando i tempi dell’unità di tutti i cristiani e anche di tutti i non cristiani in un’unica comunità ecumenica di pace e di misericordia. L’importante è far passare il messaggio che il primo passo della riforma è una formale rottura con il passato, ad opera di Bergoglio, con una pastorale di segno opposto rispetto a quella attuata dai papi che lo hanno preceduto. 

Piuttosto che credere a quello che Bianchi, nuovo papista, dice a proposito delle intenzioni di Bergoglio, stiamo ai fatti. Tra i fatti ci sono i documenti propriamente magisteriali, e quello più importante pubblicato da papa Francesco è l’enciclica Lumen fidei, scritta a quattro mani proprio con papa Benedetto XVI, il che esclude l’ipotesi di una volontà di rottura con il suo insegnamento dogmatico. Poi ci sono i «fatti dogmatici». Così venivano chiamati in passato i pronunciamenti solenni del Romano Pontefice riguardo alla santità di alcuni fedeli di ieri, proposti ai fedeli di oggi come intercessori presso Dio e come modello di virtù cristiane. Le beatificazioni e soprattutto le canonizzazioni implicano non solo un generico insegnamento circa l’esemplarità di una vita cristiana ma impegnano l’infallibilità nell’affermare come verità rivelata da Dio (tramite i miracoli) che taluni membri della Chiesa ora defunti sono in Cielo nella gloria. Insomma, gli atti pontifici di beatificazione e di canonizzazione sono degli insegnamenti solenni riguardo alla vita cristiana dei singoli fedeli e della Chiesa come comunità gerarchicamente ordinata. Ora, tra i fatti del pontificato di Francesco ci sono anche la canonizzazione di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II, e ora anche la beatificazione di Paolo VI. Dunque, è assurdo porre papa Francesco in antitesi con i suoi predecessori, presentarlo ai cattolici e ai laicisti come l’uomo della rottura con la Tradizione, come il Papa che ha cominciato a ridimensionare il papato e a dare ragione a tutti coloro che la Chiesa ha sempre considerato eretici, scismatici o miscredenti. 

Ma, tant’è. Bianchi si è avvalso negli anni passati del favore concessogli (non certo disinteressatamente) dagli intellettuali italiani dichiaratamente anticattolici (perché ebrei o protestanti o perché agnostici, atei o pagani di ritorno), e poi, sempre di più, dall’editoria religiosa cattolica e da non pochi vescovi. Ora non gli pare vero di potersi  appropriare anche della figura del Papa, che gode delle simpatie anche dei più “lontani”. Bianchi già da tempo lo ha arruolato d’ufficio nel suo “esercito della salvezza” (i meno giovani tra i lettori ricorderanno la Salvation Army), riducendolo a un’icona ideologica per poterlo “vendere” nel mercato mediatico come colui che finalmente spazza via la vecchia Chiesa e dà inizio a una nuova storia, con nuovi protagonisti non più nostalgici del passato e non più chiusi nelle ristrettezze del dogma, della morale  e delle leggi canoniche.

Che la riforma della Chiesa attraverso la de-dogmatizzazione, l’antigiuridicismo e la sinodalità (intesa come rinuncia all’esercizio effettivo del primato) sia il sogno di Bianchi lo sappiamo bene, perché i suoi slogan politico-religiosi non fanno altro che volgarizzare le tesi di Hans Küng, così come si trovano soprattutto nella sua ultima opera di largo respiro, il Projekt Weltethos, dove è profetizzato, in termini hegeliani, il “destino del cristianesimo”, che di riforma in riforma dovrebbe alla fine trasformarsi nel catalizzatore di una religione mondiale, basata sull’etica sociale  della convivenza e della misericordia. Questa religione senza dogmi e senza magistero dovrebbe poter continuare a richiamarsi a Gesù: ma non come il Dio-con-noi (Immanuel), non come il Verbo eterno che si è fatto Uomo rimanendo Dio, non come Dio-che-ci-salva (Yoshua), ma come una «creatura» (così lo definiva Bianchi nell’articolo su Avvenire di due anni fa che dette inizio alla polemica nei sui confronti), un modello etico, una specie di Buddha.

Ecco infatti come si riferisce a Cristo Enzo Bianchi nell’ultimo articolo, parlando della auspicata riforma della prassi ecclesiale nei confronti dei cattolici divorziati e risposati: «Quanto al tema del sinodo, è incandescente perché è in gioco non tanto una disciplina diversa riguardo al matrimonio, alla famiglia e alla sessualità, bensì il volto del Dio invisibile, un volto che noi cristiani conosciamo solo nel volto di Gesù Cristo, colui che ci ha narrato, spiegato, fatto conoscere Dio. È in gioco il volto del Dio misericordioso e compassionevole, come sta scritto nel suo Nome santo dato a Mosè e come è stato raccontato da Gesù, suo figlio nel mondo, il quale non ha mai castigato i peccatori, non li ha mai puniti ma li ha perdonati ogni volta che li ha incontrati, spingendoli così al pentimento e alla conversione».

Quanta retorica buonista e quanti errori teologici in poche righe! Innanzitutto, il Credo della Chiesa cattolica e la Scrittura non ci presentano Gesù Cristo come “colui che ci ha narrato, spiegato, fatto conoscere Dio”, ma come Dio stesso, come il Figlio di Dio consustanziale al Padre e allo Spirito Santo, il Verbo eterno «per mezzo del quale sono state fatte tutte le cose» e che «ha preso dimora presso di noi». Offrendoci le prove della sua divinità, Egli ha provocato l’esplicita professione di fede di Tommaso apostolo: «Tu sei il mio Signore, tu sei il mio Dio!». E di Sé aveva detto: «Chi vede me vede il Padre», e se uno lo vede come semplice uomo non vede in alcun modo il Padre; e ancora: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio voglia rivelarlo».

Bianchi fa continuo ricorso alle Scritture ma estraendone solo le frasi che gli servono a supporto retorico della sua ideologia e omettendo sempre di citare le parole fondamentali della verità soprannaturale, come la parola “rivelazione” (apokalypsis), che funge da titolo dell’ultimo libro del Nuovo Testamento. Quando scrive che il “Nome santo dato a Mosè” sarebbe il Nome “del Dio misericordioso e compassionevole” finge di ignorare che nel Libro dell’Esodo Dio rivela a Mosè il suo Nome dal roveto ardente dicendo «Io sono Colui che è, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», un’espressione nella quale certamente è implicata la compassione per gli Israeliti ridotti in schiavitù dagli Egiziani, ma anche i castighi che agli Egiziani sarebbero stati inflitti per costringerli a lasciar partire il popolo eletto.

Quanto poi all’affermazione che Gesù “non ha mai castigato i peccatori, non li ha mai puniti ma li ha perdonati ogni volta che li ha incontrati, spingendoli così al pentimento e alla conversione”, essa è volutamente confusionaria. Il comportamento di Gesù lo si comprende solo alla luce del suo primo annuncio: «Convertitevi e credete al Vangelo!»; il che significa che il perdono è offerto a tutti ma effettivamente donato solo a chi si pente e si converte. Bianchi finge di ignorare che  è Gesù in persona ad ammonire i peccatori circa i castighi di Dio, sia temporali che eterni (l’inferno), raccomandando a tutti di convertirsi e di fare penitenza prima che sia troppo tardi, cioè prima della morte e del giudizio, quando «il re dirà a quelli della sua sinistra: Lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!». Per questo Gesù, nella sua infinita misericordia, volendoci salvare ci avvisa: «State desti, perché non potete sapere né il giorno né l’ora!». Ed è sempre Gesù in persona che non vuole che ci illudiamo di ottenere il perdono senza pentimento: «Ci sono peccati (quelli contro lo Spirito Santo, ossia contro la verità conosciuta) che non possono essere perdonati né in questa vita né in quella futura». 

Dunque, a nulla servono le interpretazioni di comodo della Scrittura. Resta il fatto che non ha alcun fondamento teologico la novità “pastorale” che Bianchi vagheggia come segno della misericordia di Dio nei confronti di quei cattolici che hanno violato il sacro vincolo della fedeltà coniugale divorziando dal coniuge e vivendo more uxorio con un’altra persona. Del resto (ironia della sorte, direbbe un pagano, ma un cristiano deve pensare che si tratta piuttosto di Provvidenza), proprio il giorno stesso nel quale leggo queste affermazioni distorte di Bianchi sul perdono di Dio, la Santa Messa della domenica XXVIII dell’anno fa leggere un brano del Vangelo nel quale Gesù parla degli uomini, ricchi e poveri, buoni e cattivi, invitati gratuitamente alle nozze del re, uno dei quali viene però cacciato via perché non ha voluto indossare l’abito della festa. Significa che la grazia del perdono divino e l’ammissione all’Eucaristia richiede la conversione del cuore, la quale a sua volta implica la volontà di uscir fuori da una situazione di peccato abituale e volontario.

Proprio quello che la Chiesa, soprattutto a partire dal Concilio di Trento, ha definito riguardo alla possibilità di accedere alla comunione eucaristica: chi ha coscienza di essere in peccato grave e non vuole cambiare vita, non può ricevere il perdono sacramentale (l’assoluzione nel sacramento della Penitenza) e non è quindi in condizioni di fare la Comunione.

Ma a Bianchi non importa nulla della dottrina cristiana così chiaramente enunciata dal magistero e dalla Scrittura. Parla del matrimonio come di una love story e ignora il suo statuto morale come istituzione di diritto naturale e la sua elevazione a sacramento quando è celebrato tra battezzati.

Con la retorica buonista vorrebbe trasformare il patto coniugale, che è un vincolo morale che obbliga in coscienza, in uno stato d’animo, in un mero tentativo come è il fidanzamento; e parla del tradimento della fedeltà coniugale come se parlasse del fallimento di un’impresa commerciale: «Nella storia, e particolarmente oggi, questo vincolo nelle storie d’amore non è sempre assunto nella fede, nell’adesione alla parola di Cristo e, comunque, a volte si deteriora, si corrompe e muore. Sì, tra coniugi occorre stare insieme fino a quando uno rende più buono l’altro, ma se questo non avviene più, dopo ripetuti tentativi, allora la separazione può essere un male minore. Ed è qui che a volte può iniziare una nuova storia d’amore che può mostrarsi portatrice di vita, vissuta nella lealtà e nella fedeltà, nella condivisione della fede e dell’appartenenza viva alla comunità cristiana. Per quanti vivono in questa condizione non è possibile celebrare altre nozze né contraddire il sacramento del matrimonio già celebrato, ma se compiono un cammino penitenziale, se mostrano con l’andare degli anni saldezza nel nuovo vincolo, non si potrebbe almeno ammetterli alla comunione che dà loro la possibilità di un viatico portatore di grazia nel cammino verso il Regno? Secondo la dottrina cattolica tradizionale l’eucarestia è sacramento anche per la remissione dei peccati». Peccato che la “dottrina cattolica tradizionale” consideri questa grazia sacramentale applicabile solo a peccati veniali, ossia a quelli che non richiedono la confessione e l’assoluzione in nome della misericordia di Cristo.