La buona morte, il pio esercizio da riscoprire
Il Coronavirus ha costretto molte persone ad affrontare in condizioni estreme, spesso senza sacramenti, il momento della morte. Erano pronte? È necessario rilanciare una vera pastorale sui sacramenti e preparare esplicitamente all’Estrema Unzione. Riproponendo a tutte le generazioni le pratiche classiche come l’Esercizio della buona morte, affinché l’anima sia pronta all’incontro con il suo Redentore.
Scriveva Romano Amerio: “La morte è il punto decretorio di tutto il destino dell’uomo, essa è un atto dell’uomo, anzi il supremo atto, e non già un puro troncamento, un’apoplessia, onde si cade dall’essere individuo all’indifferenziato nonessere, come accade del bove che stramazza nel mattatoio sotto il colpo del beccaio. Qui occorre rilevare la sovrana importanza che la religione assegna all’atto del morire: tale atto, come tutti gli atti morali, deve essere pensato, predisposto nella coscienza”. (Iota Unum, Lindau, p. 599)
Il Coronavirus ha costretto moltitudini di persone e di cristiani ad affrontare in condizioni estreme l’atto del proprio morire. Erano pronte? Erano state preparate? Quanto ha influito su di esse l’impossibilità di ricevere i sacramenti del transito?
Concentriamoci su quest’ultima domanda e cerchiamo di rispondere in modo profondo, né formalista né modernista. Come possiamo leggere l’impossibilità di essere accompagnati dal sacramento dell’Estrema Unzione, dalla Confessione finale e dal Viatico? È vero che il votum desiderii basta da sé? Quanto si può colmare e sostituire l’imposizione effettiva del sacramento?
Nel rispondere voglio ricevere consiglio da una santa di rara modernità: santa Gertrude di Helfta, monaca benedettina del XIII secolo. Riporto un episodio che ci riguarda. Ridotta in fin di vita e indotta dalle visioni del Salvatore a chiedere l’Estrema Unzione, suor Gertrude in pochi giorni si riprende e dallo stesso Signore è spinta a chiedere la fondazione di un monastero. Ecco il dialogo che scaturisce tra la santa e il suo Creatore:
“O Dio del mio cuore, e perché riempi la mia mente di volontà così diverse? Pochi giorni fa mi hai indotta a desiderare l’estrema Unzione. Ora, al contrario, mi dai il desiderio di fondare un monastero”.
“La devota preparazione che hai allora fatta con desideri e pie pratiche è nascosta nel mio sacro Cuore e servirà alla tua eterna salvezza. Così, se tu sarai sorpresa da morte improvvisa e non potessi ricevere i Sacramenti, o ancora se ricevendoli non avessi più la conoscenza, non proveresti alcun detrimento. Infatti le opere che hai compiuto altre volte per prepararti alla morte, in virtù della mia cooperazione continueranno a crescere, a fiorire e a produrre per te frutti di salvezza”. (Santa Gertrude, Le rivelazioni, Cantagalli, vol. I, 293-294)
Santa Gertrude ci aiuta a raggiungere il nucleo della questione. Non si tratta né di assolutizzare l’esercizio del sacramento, quasi che fuori di esso non ci sia spazio per un cammino spirituale e per un intervento divino; né di banalizzare e marginalizzare il medesimo. Si tratta di assumere un’ottica dinamica e di autentica preoccupazione spirituale.
Il sacramento favorisce, suscita e corona un autentico cammino dello spirito, preparando l’anima cristiana ad aprirsi ai doni che il sacramento stesso promette. Il sacramento è il punto di sintesi, rivelato e affidato all’umanità da Dio stesso, in cui sono raccolti tutti i passi dello spirito umano necessari all’incontro con lo Spirito divino.
Banalizzare il sacramento, dire che esso in fondo non è necessario, significa mettere l’anima a rischio di non procedere, o di procedere con gran fatica, nel proprio itinerario di santificazione. Chi sarà così imprudente da assumersi una tale responsabilità davanti a Dio?
D’altro canto, in casi estremi, è vero che l’assenza del sacramento può essere supplita se nel frattempo l’anima è stata preparata a nutrire e nutrirsi di quei valori spirituali che appunto convengono alla natura del sacramento: nel nostro caso, l’estremo dono di sé e la consegna del proprio spirito allo Spirito per l’eternità. Questo insegna santa Gertrude: il dispiacere per non aver ricevuto il sacramento è colmato dalla consolazione e dal merito di essersi preparati interiormente a incontrare lo Spirito.
A questo punto e in questa sede, la domanda più importante che intravedo non concerne poi la necessità o meno del sacramento, non ci preme cioè un giudizio teologico sacramentale sul sacramento in sé e per sé. La domanda utile e necessaria che intravedo concerne la nostra preoccupazione pastorale di preparare i fedeli a ricevere il sacramento e quindi a incontrare lo Spirito Santo in particolari situazioni della propria esistenza: nel nostro caso, in punto di morte.
Nell’aneddoto riportato, Gesù, vero Pedagogo, guida accortamente un’anima a prepararsi alla propria morte, prospettando la possibilità di non poter ricevere i debiti sacramenti o di doverli ricevere del tutto inconsapevolmente.
Mi chiedo: la nostra pastorale post-conciliare, mentre da un lato si è preoccupata di ‘liberare’ i fedeli da una visione ‘magica’ dei sacramenti e ha tanto insistito nel dire che Dio non è legato ad essi, ha operato altrettanto per preparare i fedeli a incontrare veramente - in casi estremi senza sacramenti - il loro Redentore e il Suo Spirito?
Per la mia esperienza personale, spesso ciò non è avvenuto. L’accusa dei sacramenti, ridotti a magia o accusati di ‘reificazione’, non è stata accompagnata da un reale cammino di formazione dello spirito dei christifideles. Temo quindi che molti dei nostri defunti di queste settimane, oltre ad essersi trovati soli e privi di sacramenti, non siano stati debitamente preparati da una accorta pastorale della buona morte.
Che fare dunque? Iniziamo a rivalutare e riprogettare la preparazione ai sacramenti e anche l’esplicita preparazione all’Estrema Unzione. È bene prepararci quanto prima per essere pronti al momento opportuno, sia quando sia, sia come sia.
Recuperiamo le classiche pratiche pastorali quali l’Esercizio della buona morte, proponendolo a tutte le generazioni. Sono facilmente reperibili i testi classici, ma esistono anche delle edizioni riformulate e adatte al nostro tempo.
Ma anche: se riteniamo di aver mancato nel fornire tale preparazione, nel nostro ruolo di sacerdoti o di catechisti, o anche solo se riteniamo di volerci associare in qualche modo ai fratelli e agli uomini di buona volontà che tanto hanno sofferto in questa epidemia, offriamo personalmente a Dio qualche penitenza e digiuno per questi malati, moribondi e defunti che, forse anche per causa nostra, hanno affrontato l’agonia e la malattia senza i debiti strumenti spirituali.