La banalità di "Un posto al sole"
La produzione è di bassa qualità, si regge su stereotipi di facile lettura e situazioni sentimentali intricate ma superficiali, capaci di stimolare la curiosità di un pubblico dal palato grossolano.
Come ogni soap opera che si rispetti, “Un posto al sole” (RaiTre, dal lunedì al venerdì ore 20.35) ha una durata lunghissima e, una volta conquistato un posto fisso nel palinsesto, non lo abbandona tanto facilmente. La produzione è di bassa qualità, si regge su stereotipi di facile lettura e situazioni sentimentali intricate ma superficiali, capaci di stimolare la curiosità di un pubblico dal palato grossolano. L’unico merito della serie è di essere interamente “made in Italy”.
Eppure questa telenovela, in oltre quindici stagioni di messa in onda, ha superato la considerevole quota delle 3.000 puntate trasmesse e, dopo che il 12 agosto si chiuderà la stagione in corso, già a fine mese ripartiranno le nuove puntate. Mentre le soap sono tradizionalmente dedicate alle storie di cuore, in “Un posto al sole” gli autori hanno voluto provare a uscire dal seminato, inserendo storie di carattere poliziesco, vicende incentrate su problemi sociali, siparietti comici e situazioni surreali.
Inizialmente incentrata intorno alle vicende degli abitanti di un palazzo sulla collina partenopea di Posillipo, la produzione si è progressivamente dipanata a rete e nel tempo è stata palestra professionale per molti attori passati poi a produzioni più prestigiose.
Come accade per altri programmi dei palinsesti generalisti italiani, anche in questo caso la domanda è d’obbligo: dato che la fascia di programmazione fra le 7 e le 22.30, secondo i documenti ufficiali e la “mission” istituzionale della Rai, dovrebbe essere dedicata alla fruizione famigliare, “Un posto al sole” è… al posto giusto?