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MEDIO ORIENTE

Kurdistan, si apre una nuova crisi

Con l’Isis ormai alle corde, è il referendum per l’indipendenza curda a surriscaldare gli animi in tutto il Medio Oriente con il rischio di una nuova guerra sovrapposta a quelle già esistenti.

Esteri 26_09_2017

Con l’Isis ormai con le spalle al muro e secondo i militari iraniani destinato ad essere sconfitto definitivamente entro tre mesi, è il referendum per l’indipendenza curda a surriscaldare gli animi in tutto il Medio Oriente con il rischio di una nuova guerra sovrapposta a quelle già esistenti.

Nonostante frenetici negoziati tesi a scongiurare il ricorso alle urne dei curdi iracheni, Il 24 settembre il presidente Massud Barzani ha affermato che la collaborazione con Baghdad è fallita. «Il partenariato con Baghdad è fallito e non lo riprenderemo. Siamo arrivati alla convinzione che l'indipendenza ci permetterà di non ripetere le tragedie del passato» ha detto in conferenza stampa a Erbil.
In risposta a Barzani il parlamento di Baghdad ha votato una mozione che "obbliga" il primo ministro Haider Abadi nella sua qualità di capo delle forze armate dell'Iraq a «schierare l'esercito a Kirkuk e in tutte le zone contese» tra i curdi e il governo centrale.

Protagonisti della guerra contro lo Stato Islamico e unici a reggere l’urto delle armate jihadiste (con l’aiuto della Coalizione a guida USA) quando le truppe di Baghdad erano in rotta, i curdi oggi reclamano il “premio” della vittoria sul Califfato, e cioè quella agognata indipendenza già costata sangue e lutti a quel popolo. Un progetto teso ad andare oltre l’autonomia conquistata con le armi e l’appoggio degli anglo-americani nel 1991 e poi ufficializzata nel 2005 dalla nuova costituzione federale irachena. Un progetto coltivato con cura in questi tre anni di guerra all’Isis in cui le ben attrezzate ma numericamente esigue truppe curde hanno impiegato con intelligenza le proprie forze. Hanno lasciato che fossero gli iracheni dell’esercito regolare, della polizia e delle milizie scite a dissanguarsi per strappare Mosul, città araba e turkmena, all’Isis.

Ben diversa la strategia adottata a Kirkuk, città petrolifera dove i curdi sono una parte consistente della popolazione composta anche da arabi sunniti e turkmeni e dove le milizie peshmerga non hanno esitato in questi anni a cacciare le altre etnie requisendone o distruggendone abitazioni e proprietà. Una “pulizia etnica” come quella subita in tante occasioni dagli stessi curdi che oggi vede in Kirkuk l’ago della bilancia in una crisi istituzionale irachena che potrebbe sfociare in una nuova guerra civile.

Ieri la polizia irachena ha istituito il coprifuoco nella città dove il 19 settembre erano scoppiati violenti scontri tra curdi e turkmeni, mentre in 12.072 seggi 5,3 milioni di elettori curdi registrati erano chiamati a votare nelle tre province del Kurdistan autonomo: Erbil, Sulaimaniyah e Dohuk, ma anche nella provincia contesa di Kirkuk.

A volere ad ogni costo il referendum è il più importante movimento politico curdo, il Partito democratico del Kurdistan (Pdk) legato alla famiglia Barzani. Sostanzialmente favorevole anche l'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) legato al clan dei Talabani, di cui fa parte anche il presidente della Repubblica irachena, Fuad Massum. Decisamente contrario è invece il Movimento del Cambiamento (Gorran), che vorrebbe prima raggiungere una piena democratizzazione del Kurdistan a partire dall'elezione di un nuovo presidente. 
Gran parte della comunità internazionale si è detta contraria al referendum sull'indipendenza curda fin dall’annuncio del voto. Tante le ragioni, dal pericolo che dalla nascita del nuovo Stato emergano nuovi motivi di guerra che sconvolgerebbero ancora a lungo il Medio Oriente, alle preoccupazioni degli Stati confinanti che hanno minoranze curde che potrebbero voler seguire l’esempio dei fratelli dell’Iraq.

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha ribadito la ferma opposizione della Turchia, dicendosi pronto, se necessario, a fare intervenire il suo esercito. Ankara è preoccupata dall’affermazione dell’autonomia dei 2 milioni di curdi siriani, vicini al PKK curdo-turco, e non può tollerare la nascita di uno Stato Curdo ai suoi confini meridionali e che inevitabilmente avrebbe un forte potere attrattivo per i “turchi di montagna”, nome che la Turchia attribuisce ai 15 milioni di curdi che vivono entro i suoi confini non riconoscendone le peculiarità etniche. «Non riconosciamo questa iniziativa, priva di basi legali e legittimità rispetto alla legge internazionale e alla Costituzione irachena» si legge in una dichiarazione del ministero degli Esteri turco.
«Potremmo entrare (in Kurdistan) improvvisamente di notte - ha minacciato Erdogan -. Come abbiamo liberato in Siria le città di Jarablus, al-Rai e al-Bab dall'Isis, se ce ne sarà bisogno non ci tireremo indietro dal compiere passi simili in Iraq». Il leader di Ankara ha anche ipotizzato un embargo al commercio petrolifero del Kurdistan iracheno. «Vedremo a chi lo venderanno, la Turchia controlla la valvola», ha detto, riferendosi all'oleodotto che collega Kirkuk al terminale turco di Ceyhan, sul Mediterraneo.

L'Iran e la Turchia, già coinvolti dai russi nei negoziati di pace in Siria, hanno inoltre iniziato esercitazioni nei pressi dei confini del Kurdistan iracheno. Anche l'Iran, che ospita entro i suoi confini una minoranza di 6 milioni di curdi, ha infatti manifestato la sua contrarietà ad azioni che «minano l'integrità territoriale irachena». Il ministro degli esteri, Walid al-Moualem, ha affermato che l’Iran «rifiuta ogni procedura che conduca alla frammentazione dell'Iraq».  

Gli Stati Uniti, il Regno Unito e l'Onu hanno diffidato il partito di Barzani dal tenere il referendum, sostenendo che questo avrebbe potuto indebolire la lotta contro lo Stato Islamico ma è difficile credere che i curdi non abbiano preso contromisure contro eventuali blitz dei loro vicini iracheni, turchi e iraniani affidandosi al supporto degli USA, veri e propri “padrini” (anche se non sempre fedeli) del Kurdistan.
Gli USA hanno un consolato a Erbil da molti anni e una presenza militare e diplomatica che risale agli anni ’90: difficile credere che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non vi sia il sostegno americano dietro al referendum curdo così come è improbabile che Barzani sia così pazzo da mettere il suo piccolo territorio e popolo a rischio di guerra contro tutti i suoi vicini senza avere le spalle coperte.

Pieno sostegno al referendum curdo è giunto invece da Israele, la più importante potenza mediorientale, alleato di ferro degli Stati Uniti e da tempo partner anche militare dei curdi iracheni.  
A ben guardare, statunitensi e israeliani sono gli unici ad avere qualche interesse nel perseguire l’ulteriore destabilizzazione del Medio Oriente e non sarà certo la prima volta nella Storia che i curdi vengono sacrificati sull’altare degli interessi delle potenze regionali.