Kung, il teologo diventato "angelo" della (buona) morte
Si intitola Glücklich sterben?, “Morire felici?” ed è il nuovo libro di Hans Kung, il teologo tedesco già noto per le sue posizioni contro il Papa e la Chiesa. Ed ora, anche per il diritto all'eutanasia che, dice Kung, ha anche un suo fondamento cristiano. L'ultima eresia di un teologo molto amato dai nemici della Chiesa.
Gli “Angeli della morte”, quei serial killer vestiti di bianco che negli ospizi fanno fuori con iniziazioni letali vecchi e malati senza più speranza, hanno da oggi anche la benedizione della teologia. Quella di Hans Kung, tedesco di Tubinga, da sempre su posizioni sul filo dell’eresia, ma sempre e ostinatamente in direzione contraria al Papa, al Vaticano e alla Chiesa che lui definisce «una dittatura della fede». Teologo e scrittore, Kung è più amato fuori che dentro la Chiesa, soprattutto dai quei laici tutti di un pezzo, votati all’ossessione di convincere i cattolici a fare meno della Chiesa cattolica. E da qualche cattolico già convinto. Eugenio Scalfari, tanto per fare qualche nome, e l’ineffabile priore di Bose, quell’Enzo Bianchi che equamente e modo bipartisan divide i suoi pregiatissimi commenti tra Avvenire e La Repubblica.
Hans Kung oggi ha 85, la salute è precaria, è affetto da tempo dal morbo di Parkinson, presto perderà l'uso delle mani e per una degenerazione inarrestabile, è destinato alla cecità. Ha completato da poco la stesura della sue Memorie, ma da un anno sa di non avere speranza. «È stato uno shock», confessa. «Uno studioso che non può né leggere né scrivere? Che cosa può fare?». «Non voglio sopravvivere come una larva di me stesso», scrive nel terzo e ultimo volume delle memorie. «Mettere in scena la mia morte», continua, «sarà la mia ultima protesta contro la burocrazia ecclesiastica in Vaticano». Metafora di potente teatralità, ma un tantino grottesca: par di vederlo il Kung kamikaze imbottito di eutanasia esplosiva immolarsi sotto il colonnato del Bernini.
Kung è sempre stato abile nel trasformare drammi collettivi e personali (nel libro ricorda la morte di suo fratello, che a 23 anni, nel 1955, fu ucciso da un tumore cerebrale, e quella di un suo amico, il grande intellettuale Walter Jens) in manifesti teo-politici, in battaglie calviniste, ma soprattutto kunghiane, contro il potere repressivo e antievangelico della Chiesa e del papato. Da qui nasce e qui arriva anche l’ultimo scritto del teologo, intitolato Glücklich sterben?, ovvero “Morire felici?”. Chiaro no, dove stavolta vuole arrivare il ribelle Hans: l’eutanasia, la "buona" morte che però buona non è. Cioè: come farsi fare una punturina letale e andare all’altro mondo con il sorriso sulle labbra. Il libro non è ancora arrivato in Italia (ci penserà di certo Rizzoli, la sua editrice preferita), ma ad anticipare quello che ci aspetta ci ha pensato Repubblica con una paginata di recensione. In esclusiva, ma anche in ginocchio. A firmarla è Andrea Tarquini, corrispondente da Berlino, ma del tutto improbabile nel ruolo di improvvisato vaticanista. Che neppure ha fatto la fatica di andarsi a comprare il libro e leggerlo, ma si limita a fare la recensione di una recensione: quella di tal Matthias Drobinsk della Sueddeutsche Zeitung, che a detta di Tarquini è «il più autorevole vaticanista tedesco». Beh, detto da lui non è per nulla benaugurante.
La premessa è una grande manifestazione d’affetto, al limite dell’adulazione: Kung viene presentato ai lettori come «uno dei massimi teologi cattolici del nostro tempo, il grande ribelle, ma esegeta di Papa Francesco». Dei tre attributi, Tarquini ne imbrocca uno solo, il ribelle, mentre con il terzo, l’esegeta di Papa Francesco, atterra dritto nella fanta-fiction spinta. Certo, l’esimio teologo s’è talora spinto al punto di immaginarsi un Bergoglio nei panni arcobaleno del leader Lgbt, fauore dell’aborto, del matrimonio a tempo e del sacerdozio delle donne. Fermato solo dalle «pressioni della congregazione della dottrina della fede e del suo prefetto, l’arcivescovo Gerhard Ludwig Müller». A quando la profezia che prima o poi Francesco verrà trovato morto assassinato nei giardini vaticani?
«È parte del mio modo di concepire la vita, ed è legata alla mia fede nella Vita Eterna, la scelta di non protrarre a tempo indeterminato la mia vita terrena», scrive Kung nel suo libro di morte. E ancora: «Se e quando giunge il momento, io vorrei avere il diritto, se potrò ancora farlo, di decidere con la mia responsabilità sul momento e il modo della mia morte». E poi: «È conseguenza del principio della dignità umana il principio del diritto all’autodeterminazione, anche per l’ultima tappa, la morte. Dal diritto alla vita non deriva in nessun caso il dovere della vita, o il dovere di continuare a vivere in ogni circostanza. L’aiuto a morire va inteso come estremo aiuto a vivere».
C’è poco da fare gli esegeti: qui il messaggio del raffinato teologo è chiarissimo e non ha niente di originale rispetto a qualsiasi angelo o doctor Morte che ammazzano invocando il dovere compassionevole di staccare la spina o a infilare l’ago nelle vene dei malati terminali. Almeno loro hanno il pregio della semplicità, uccidono in silenzio e senza menarsela tanto con i tortuosi incroci di parole, gli ossimori a effetto, le fumesterie verbali sui diritti alla vita ma i doveri del vivere. Filosofia spicciola e pret-à-porter, non degna certo del “più grande teologo cattolico”, ma solo marketing eutanasico, molto buono per sponsorizzare associazioni come Exit (Kung ne fa parte) e Dignitas, che in Svizzera offrono i loro pacchetti tutto compreso di suicidio assistito anche a persone depresse o stanche di vivere o che si sentono ormai troppo anziane.
Lo confessa senza remore, quando scrive che occorrerebbe far conoscere l’attività delle associazioni che aiutano a morire, anche accettando che lo facciano a pagamento, così come parroci chiese e autorità si fanno pagare per i funerali. Bene sarebbe accettare che le persone decise a non sopportare più dolori tremendi e a non continuare a vivere possano decidere sovrane. Tesi provocatoria. «Non voglio esaltare il suicidio», precisa Küng, ma è solo un altro scambio di parole, gioco lessicale per ingenui. Con l’aggravante di una presunta legittimazione scovata addirittura nella storia cristiana: «non sempre», dice Kung, «i cristiani hanno condannato la scelta di morire». E così, con un bel colpo di penna, anche tutti i martiri cristiani sono stati arruolati nello spot pro eutanasia, da testimoni della fede a testimonial del club della buona morte made in Suisse,
«Se la vita è un dono di Dio, perché non accettare la possibilità di restituire gentilmente il dono?». La domanda è del corrispondente Tarquini e, Kung a parte, meriterebbe una risposta perché riguarda tutti. Ma soprattutto riporta la questione al suo principio. Non siamo stati noi a decidere di nascere, né a indicare madre e padre né a programmare l’avvenire di figli e amici. Perché la serie delle opzioni in uso non è infinita e basta poco per interromperla: una malattia, un incidente, la vecchiaia che ci condannano all’impossibilità del fare, del produrre, dell’organizzare. Dolce morte: solo questo è concesso all’uomo? O non occorrerà invece che sulla finitezza, sul mistero di una libertà imperfetta, si facciano finalmente i nostri conti? Magari solo per scoprire che non sappiamo contare. La risposta di Hans Kung da Tubinga, improbabile dead man walking, è soltanto un irragionevole invito ad alzare bandiera bianca e a soffocare l’urlo della nostra umanità ferita. Neppure “uno dei massimi teologi cattolici del nostro tempo” ci può fare questo.