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IL CARDINALE PARTIGIANO

Kompagno Zuppi e quel che serve per la riconciliazione

L'arcivescovo di Bologna intervistato dall'Anpi scivola sul 25 aprile: «Una festa di tutti, non di parte». No. Proprio i preti uccisi dai partigiani comunisti affiliati Anpi, dei quali Zuppi non fa cenno, sono la prova che non c'è riconciliazione. Senza riconoscere il loro martirio non ci sarà mai unità sulla Festa di Liberazione. Basta prendere esempio dal rimprovero di Biffi a Dossetti.

Attualità 22_04_2020

Non per apparire come chi vuole far le pulci a un cardinale nei giorni in cui un nuovo nemico – invisibile – dovrebbe tenerci al riparo dalle polemiche. Ma quando si scivola bisogna che qualcuno ci aiuti a rialzarci. Ed è con piacere che rialzeremmo volentieri sua eminenza il Cardinal romano Matteo Maria Zuppi che è scivolato sul più prevedibile luogocomunismo emiliano: il 25 aprile come una festa di tutti.

«Ha corso il rischio di essere vissuta come una festa di parte, a volte retorica, è la festa di tutti e celebra i valori fondanti del nostro paese», dice l’Arcivescovo di Bologna in una intervista al sito dell’Anpi, poi rilanciata da Repubblica.

Curioso, per lo meno, dato che non c’è nulla più di parte di chi si chiama “partigiano”. E per giunta partigiano comunista. Eh sì, eminenza, perché l’Anpi non rappresenta tutti i partigiani, bensì quelli comunisti. Quelli che dopo la guerra rimasero filo sovietici costringendo tutti gli altri combattenti riformisti, cattolici, liberali, monarchici a lasciarli al loro destino e cercare riparo sotto altre sigle per non lasciare il pallino della Guerra di Resistenza all’Anpi ormai solo comunista.


Il cadavere di don Umerto Pessina (1946)
 

Quindi la retorica di cui lei lamenta il rischio è semmai quella che l’Anpi ha imposto e alla quale abbiamo assistito in Emilia per 75 anni, complici tutte le amministrazioni rosse, la retorica intoccabile di chi ha portato avanti in tutti questi anni la vulgata di un’unica guerra di liberazione in vista del Sol dell’avvenire. Quell’Unione Sovietica comunista tanto amata da molti gappisti proprio sulle montagne bolognesi dove oggi lei svolge la sua azione pastorale e dei quali – provi a chiedere a qualche anziano del paese – non c’è affatto un bel ricordo. Qui infatti si uccidevano non solo nazisti e fascisti, ma anche papà di famiglia innocenti senza alcun coinvolgimento col regime e preti.

Tanti. 8 almeno a Bologna, compreso don Tiso Galletti di Imola, di cui è uscito un bel libro recentemente, 11 a Reggio Emilia, compreso il seminarista beato Rolando Rivi, 6 a Modena, tra cui don Giuseppe Lenzini, del quale è in corso la causa di beatificazione. E poi tutte le altre province emiliane e altre regioni. Il giornalista Roberto Beretta ne ha contati 130 uccisi dai partigiani comunisti, ma secondo alcune ricerche storiche il numero potrebbe essere di gran lunga superiore perché molti preti morivano molti giorni dopo per le emorragie interne a seguito di percosse con sacchi di sabbia. Altri invece sono stati fatti sparire con la scusa di rapine e vendette private e pertanto non sono entrati in quello che è ancora un martirologio incompleto, non accettato nemmeno dalla Chiesa e viziato dall’ideologica pretesa che siano stati episodi spiacevoli, ma in fondo incidenti di percorso.

L'altare del beato Rolando Rivi martire
 

Chi sostiene questo, eminenza, è proprio l’Anpi, al cui interno sono stati iscritti assassini di innocenti e preti e che non ha mai fatto un vero e sistematico mea culpa per quelle morti. Basti pensare che nel 1978 l’Anpi di Modena poteva permettersi di dire che l’assassino di Rolando Rivi era stato in carcere per «aver ucciso una spia fascista». A più di 35 anni dal processo che affermò l’odium fidei in cui maturò quel delitto.

Avrebbe fatto bene a ricordare quella storia nell'intervista. Perché non c’è nulla più di parte dell’Anpi, che non può essere di tutti e che ha bisogno anche col suo aiuto autorevole di quel confronto storico con lo scopo di farle accettare i tanti delitti compiuti da presunti liberatori che ancora però fatica a vedere.

Vede, il suo atteggiamento è un po’ entusiastico e un po’ comodo, dato che in Emilia questa è una delle Chiese che non si possono toccare, pena l’ostracismo, ma è molto diverso da quello del suo predecessore Giacomo Biffi (nella foto con Dossetti e Giussani). 

Questi, nel 2013 rimproverava al suo prete don Giuseppe Dossetti, che lei conosce molto bene, «una indole manifestamente ideologica» e di non essersi mai voluto occupare dei tanti preti uccisi nella nostra terra. «Nel territorio emiliano tali vittime dei comunisti che spadroneggiavano si contano a migliaia. Ed è significativo l’accanimento che si dimostrò nei confronti dei parroci con il chiaro intento di intimidire popolazioni e di scoraggiare ogni resistenza al disegno di conquista del potere da parte dei rossi. Don Giuseppe Dossetti che pure apparteneva allo stesso presbiterio bolognese di queste vittime, non sente la necessità di darne un cenno nemmeno fugace. A me invece sembra giusto che a questo punto si iscrivano i nomi degli uccisi da rossi tra il nostro clero e uccisi a guerra finita, in un tempo che ormai doveva essere di pace», diceva poco prima di morire. Oggi sottoscriverebbe questa affermazione del suo predecessore sulla cattedra di San Petronio?

Ecco il punto: riconoscere il martirio di questi preti e arrivare ad una pacificazione piena solo grazie a un’operazione verità che indichi l’odio alla fede in cui maturarono quei delitti. Prenda esempio da chi, per la salvezza eterna dei propri cari, ha chiesto perdono per quell'odio. Senza la presa d’atto delle responsabilità storiche di questi partigiani, la riconciliazione che lei auspica, «il comune sentire, capace di unire idealità diverse per il bene del nostro paese e di superare le parti» sarà sempre irrealizzabile e vuota retorica.

La Chiesa non è debole – come dice lei - perché non sta al passo con i tempi, ha preti anziani e non sa comunicare. Questo linguaggio da anticaglia lasciamolo agli anni '70. La Chiesa è debole perché non riconosce il sacrificio dei suoi figli martiri e si accoda al comodo pensiero dominante, che in Emilia è ancora lo stesso e dallo stesso colore da 75 anni.