Kenya, perché le elezioni interessano oltreconfine
Oltre a essere la potenza economica dell’Africa orientale, il Kenya conta nello scenario internazionale per il suo ruolo di mediatore nelle crisi degli Stati vicini. Anche il futuro del Paese, tra corruzione e debito con l’estero, è incerto e ha bisogno che le elezioni - tenutesi il 9 agosto - si concludano senza incidenti. Testa a testa tra Odinga e Ruto.
Il 9 agosto si sono svolte in Kenya le elezioni generali. Oltre 22 milioni di aventi diritto al voto sono stati chiamati a eleggere il settimo presidente da quando il paese, nel 1963, ha ottenuto l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Oltre al capo dello stato, sono stati eletti anche i governatori e senatori delle 47 contee, 337 parlamentari (con 47 seggi riservati alle donne) e i 1.450 membri delle assemblee di contea. “L’Africa orientale guarda al voto in Kenya con il fiato sospeso” era il titolo di un articolo della Bbc, che sta dedicando un servizio speciale all’evento.
Il Kenya, con un prodotto interno lordo di 110 miliardi di dollari, è la potenza economica dell’Africa orientale. Questo è il primo motivo per cui l’esito delle elezioni in questo paese ha tanta rilevanza nella regione, e in realtà anche al di là dei suoi confini. Nell’area solo l’Etiopia ha un Pil superiore, anche se di poco - 111 miliardi - ma ha 121 milioni di abitanti, mentre il Kenya ne ha 56 milioni. Inoltre l’Etiopia patisce le conseguenze della guerra civile scatenata dell’etnia tigrina nel 2020, nel tentativo di riprendere il controllo della vita politica ed economica del paese perso nel 2018 dopo quasi 30 anni al potere, e presenta tuttora una situazione altamente critica e instabile. Le economie degli otto paesi membri, oltre al Kenya, dell’East African Community, un organismo regionale fondato nel 2000, seguono con grande distacco: primo il Tanzania, con un Pil di 68 miliardi di dollari, seguito dalla Repubblica democratica del Congo con 54 miliardi, ultimi Burundi e Gibuti con 3 miliardi.
Ma c’è un secondo, fondamentale motivo che rende il Kenya importante nello scenario internazionale ed è lo stato in cui versano alcuni stati con cui il paese confina e che fanno parte dell’East African Community. Dell’Etiopia, con cui il Kenya confina a nord, si è già detto. La Somalia, divisa dal Kenya da un lungo confine, non conosce pace dal 1991 e, dal 2006, è sotto la costante minaccia dei jihadisti al-Shabaab, affiliati ad al-Qaeda. Il gruppo armato controlla estesi territori meridionali, mette continuamente a segno attentati dinamitardi nella capitale Mogadiscio e riesce a colpire lo stesso Kenya. A causa dell’inaffidabilità delle autorità politiche somale, non si intravedono soluzioni alla crisi del paese. Degli altri stati confinanti con il Kenya, quello in condizioni più critiche è il Sudan del Sud, staccatosi dal resto del Sudan nel 2011, in guerra dal 2013 a causa del conflitto per il potere apertosi tra le due etnie più numerose, i Dinka e i Nuer. Una serie di accordi di pace, violati o rispettati solo in parte, non hanno risolto del tutto lo scontro. Come in Somalia, tutto ha origine dall’irresponsabilità della leadership politica corrotta, animata da avversioni e solidarietà tribali. Critico è anche lo scenario politico e sociale della Repubblica democratica del Congo. Le province orientali del paese da quasi 30 anni sono infestate da decine di gruppi armati che operano pressoché incontrastati. Gli abitanti vivono in condizioni di insicurezza estreme, insostenibili. È una crisi complessa, eredità di due guerre civili e dell’esodo in Congo di milioni di ruandesi Hutu nel 1994, l’anno del genocidio dei Tutsi. Alcuni gruppi armati hanno legami con due stati vicini: il Ruanda e l’Uganda. Proprio in queste settimane il governo ruandese è accusato di sostenere militarmente il gruppo armato M23 e di aver inviato truppe in territorio congolese per combattere contro l’esercito del paese a fianco degli M23.
Un Kenya stabile e disposto a collaborare per la pace è indispensabile. È in Kenya che si sono svolti i lunghi negoziati tra i clan somali, mediati dalla comunità internazionale, culminati con il ritorno delle istituzioni politiche in Somalia; quelli tra i rappresentanti del governo e dei gruppi antigovernativi del Sudan conclusisi con un accordo di pace e con il referendum popolare che ha decretato la secessione del Sudan del sud; e quelli tra i leader Nuer e Dinka per tentare di riportare la pace nel paese nato da poco. È dal Kenya, tramite gli organismi internazionali che vi hanno sede, che è possibile prestare soccorso alle popolazioni della regione in difficoltà a causa di conflitti e carestie. È il Kenya che ha accettato la creazione di Dadaab e Kakuma, i campi profughi Onu più grandi del mondo, per ospitare somali, etiopi e sudanesi in fuga dai loro paesi
Ma anche il futuro del Kenya è incerto. Il paese risente dei danni causati dalla corruzione endemica. Come in tutto il continente, una delle sfide maggiori è la disoccupazione giovanile in aumento. Crescono anche l’inflazione - arrivata all’8% - e il debito estero contratto con diversi paesi ed enti, tra cui la Cina, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale e altri organismi per la realizzazione di opere improduttive o incautamente programmate, di cui i kenyani non vedono i frutti, a meno di aver parte nella loro realizzazione. Metà delle entrate fiscali del Kenya vanno nel pagamento degli interessi maturati.
Per poter affrontare queste sfide il paese ha bisogno che le elezioni si concludano senza incidenti. La campagna elettorale ha registrato locali episodi violenti, ma tutto sommato contenuti. Le operazioni di voto si sono svolte regolarmente, anche se con prevedibili problemi logistici: più che altro, confusione e ritardi nella distribuzione del materiale elettorale e nell’apertura di diversi seggi. Diverbi e atti di violenza sono stati segnalati soprattutto in alcuni seggi del nord, mentre alla frontiera con la Somalia si sono verificati atti di intimidazione da parte di al-Shabaab.
Ma il momento critico incomincia adesso perché si profila un serratissimo testa a testa tra i due candidati favoriti, Raila Odinga e William Ruto. Come insegna la storia recente dei confronti elettorali in Africa, due fattori possono scatenare una crisi difficile da gestire. Man mano che acquisiscono i risultati parziali dagli osservatori ai seggi, Odinga e Ruto possono decidere di forzare la mano, dichiararsi vincitori e incitare i sostenitori a scendere per le strade a festeggiare, senza aspettare i dati ufficiali. Questo potrebbe innescare scontri con gli avversari prima nei grandi centri urbani e poi a macchia d’olio. Oppure, alla pubblicazione dei risultati, il candidato sconfitto può decidere di contestarli adducendo prove di brogli e irregolarità, anche in questo caso chiedendo ai propri elettori di organizzare manifestazioni di protesta alle quali gli avversari risponderebbero con contromanifestazioni. Nel 2007 è successo. Per mesi il paese è stato nella morsa della violenza. Alla fine si sono contati oltre 1.200 morti. Nel 2017 è andata meglio. Alla denuncia di brogli formulata dall’opposizione sconfitta, la Corte Suprema ha smorzato la tensione decidendo di far ripetere le elezioni qualche mese dopo.
Il primo dato per ora disponibile, quello sull’affluenza alle urne, non è positivo. Sono andati a votare circa il 60% degli aventi diritto mentre cinque anni fa erano stati l’80%. Entro sette giorni la Commissione elettorale deve pubblicare tutti i risultati.