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ISLAM

Kenya nel mirino dei fondamentalisti islamici

La strage avvenuta venerdì scorso a Mandera, nel nord del Kenya, quando gli jihadisti del fronte al Shabaab hanno diviso i passeggeri di un bus e massacrato i non musulmani, è l'ultimo episodio di una lunga catena di attentati di matrice jihadista. Gli attacchi si concentrano nel nord est del paese.

Esteri 24_11_2014
Mandera, il bus sequestrato

Al Shabaab, il gruppo jihadista somalo legato ad al Qaeda, ha rivendicato l’attacco al bus compiuto il 21 novembre nell’estremo nord del Kenya, nei pressi della città di Mandera, costato la vita a 28 persone.

Dalle testimonianze dei sopravvissuti era stato subito chiaro che si trattava di un attentato di matrice islamica. Ahmed Mahat, un insegnante, si è salvato perché è musulmano: «erano somali, una decina, pesantemente armati – ha raccontato – ci hanno fermati poco prima dell’alba. L’autista ha cercato di accelerare, ma la pista era fangosa a causa della pioggia e il bus si è impantanato. Quando ci hanno fatto scendere, prima hanno separato i somali dagli altri. Quindi hanno ordinato ai non somali di leggere alcuni versi del Corano (in arabo, n.d.A.). A quelli che non sono stati capaci di farlo hanno ingiunto di stendersi per terra e poi li hanno uccisi sparando loro in testa a bruciapelo». Così sono morti 28 passeggeri su 60: tutti quelli non musulmani – 19 uomini e nove donne – ad eccezione di uno, Douglas Ochwodho, che, nella concitazione del momento, già steso a terra, è riuscito a fingersi morto e a salvarsi.

Anche nel settembre del 2013, durante l’attacco al centro commerciale Westgate di Nairobi, gli al Shabaab avevano individuato i musulmani facendo recitare alla gente versi del Corano e preghiere e li avevano fatti uscire sani e salvi dall’edificio. Le vittime erano state 67 e circa 200 i feriti.

Da allora è stato un susseguirsi di attacchi e attentati, con un bilancio sempre più pesante di morti. Il più grave è stato quello di giugno contro gli abitanti di Mpeketoni, una cittadina dell’entroterra costiero non lontana dall’arcipelago di Lamu. I jihadisti hanno attaccato una sera al grido di “Allah è grande” uccidendo la gente per strada e nei locali pubblici dove all’epoca gli uomini si riunivano numerosi per guardare alla televisione le partite del campionato mondiale di calcio. I morti sono stati almeno 67. Pochi giorni dopo in un attacco a due villaggi vicini alla città sono state uccise altre 15 persone e almeno 12 donne sono state rapite.

Intervistato il 20 giugno dalla agenzia di stampa missionaria Misna, monsignor Emanuel Barbara, vescovo di Malindi e amministratore apostolico di Mombasa, aveva rivelato che anche in quell’occasione i terroristi avevano evitato di uccidere dei musulmani, individuandoli dall’abbigliamento e dall’aspetto. A luglio altri attacchi, sempre nei pressi dell’arcipelago di Lamu, hanno distrutto case e proprietà in due villaggi, con un bilancio complessivo di 29 morti.

Per la prima volta, inoltre, ad agosto, un cristiano è stato sequestrato e decapitato.

Gli attentati e gli attacchi si concentrano nel nord est del paese, al confine con la Somalia, nella capitale Nairobi e a Mombasa, la città portuale che, come tutta la regione costiera, conta una popolazione in prevalenza musulmana. A Nairobi abitano moltissimi somali fuggiti negli oltre 20 anni di guerra civile che hanno devastato la Somalia. Tra di loro si mescolano e si nascondono i terroristi. La polizia compie periodiche spedizioni nei quartieri in cui vivono, contribuendo, con i metodi sbrigativi, per usare un eufemismo, di cui si serve a creare risentimento tra la popolazione che, oltre a non sentirsi protetta dalle forze di sicurezza, finisce per fare le spese anch’essa delle operazioni di ordine pubblico. La situazione è ancora più tesa e critica a Mombasa e sulla costa dove gli islamici incominciano a essere guardati con sospetto da un numero crescente di connazionali e dove si scontrano moderati e radicali, questi ultimi con il sostegno di al Shabaab che da anni ormai fa proseliti tra gli imam e recluta e addestra alla lotta giovani leve di terroristi. Il 5 novembre in un agguato è morto un imam moderato, ultimo di una serie.

Proprio a Mombasa, il 17 novembre, la polizia ha fermato oltre 200 giovani nel corso di un’operazione svolta nei pressi di due moschee sospettate di ospitare organizzazioni islamiste legate ad al Shabaab. Un secondo blitz, due giorni dopo, ha portato al rinvenimento in una moschea di granate, esplosivi, munizioni e benzina. Nei disordini seguiti all’azione della polizia tre persone sono state uccise a colpi di machete. 
Nel comunicato con cui rivendicano la strage del 21 novembre, gli al Shabaab hanno dichiarato che l’attacco al bus è la loro risposta ai raid della polizia a Mombasa.

Nei giorni scorsi, così come all’indomani dell’attentato al Westgate di Nairobi, molte autorità civili e religiose, queste ultime sia cristiane che islamiche, si sono rivolte alla popolazione esortandola all’unità: «Vogliono creare un conflitto tra musulmani e non musulmani, scatenare una guerra di religione» ha detto durante una conferenza stampa Abdikadir Mohammed, consigliere del presidente Uhuru Kenyatta, lanciando un appello ai kenyani di ogni fede e credo affinché facciano fronte comune contro i terroristi. Il ministero degli interni sostiene inoltre che un raid di elicotteri e aerei militari ha individuato e distrutto la base degli al Shabaab responsabili della strage. Ma un funzionario locale, Abdullahi Abdirahman, ha dato voce alla sfiducia e all’indignazione della popolazione delle zone più colpite dal terrorismo: “Non è la prima volta che il governo ci ignora ed è per questo che tanti innocenti perdono la vita. Questo massacro poteva essere evitato”. Un sopravvissuto gli ha fatto da eco: “La polizia non va mai a difendere la gente dagli attacchi per paura di essere presa di mira a sua volta”.

La Commissione Giustizia e Pace della Conferenza episcopale, all’indomani dell’attacco a Mpeketoni, in un coraggioso documento ha denunciato la corruzione diffusa tra le forze dell’ordine come una delle minacce più gravi alla sicurezza: «la corruzione – vi si legge – ha reso troppo facile per gli stranieri attraversare i nostri confini». A ciò si deve aggiungere – spiega il documento – la mancanza di dialogo tra governo e opposizione e un contesto segnato da povertà, disoccupazione e contenziosi per la proprietà della terra.

I jihadisti, in Kenya come altrove, ne approfittano per guadagnare terreno ed estendere la loro area di influenza.