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CONTINENTE NERO

Kenya, la democrazia africana fallisce ancora Odinga non concede la sconfitta e istiga violenze

L’8 agosto il Kenya è andato alle urne per il rinnovo delle cariche politiche e amministrative. I candidati alla presidenza erano otto, ma la sfida era tra due di essi: il presidente in carica, Uhuru Kenyatta e Raila Odinga. Ha vinto Kenyatta. Ma Odinga non accetta il voto. E il suo partito, Nasa, organizza manifestazioni che finiscono in tafferugli. Alla fine, l'opposizione denuncia 100 morti fra i manifestanti. Ma potrebbe essere una notizia falsa per istigare ulteriori violenze.

Esteri 13_08_2017
Raila Odinga

L’8 agosto il Kenya è andato alle urne per il rinnovo delle cariche politiche e amministrative. I candidati alla presidenza erano otto, ma la sfida era tra due di essi: il presidente in carica, Uhuru Kenyatta, di etnia Kikuyu, leader del partito Jubilee, e Raila Odinga, di etnia Luo, sostenuto da una colazione di partiti dell’opposizione, la National Super Alliance, Nasa. 

Nelle settimane precedenti, durante la campagna elettorale, i candidati avevano promesso di comportarsi correttamente, di non istigare alla violenza i sostenitori e di accettare l’esito del voto. Il Kenya è una democrazia matura, dicevano, nessuno deve più morire a causa delle elezioni, ricorrere alla forza non è il modo giusto di reagire a un voto contestato. Tutti pensavano alle elezioni del 2007 quando, proprio il rifiuto di Odinga di riconoscere la vittoria dell’avversario Mwai Kibaki, aveva scatenato un conflitto durato mesi, di cui ancora il paese porta il ricordo e il segno: 1.200 i morti e 600.000 gli sfollati. 

“Rispetterò il risultato, qualunque esso sia” aveva ribadito il presidente Kenyatta poche ore prima che si aprissero i seggi. Se dice così – era stato il pensiero disincantato di molti osservatori che l’Africa la conoscono bene – si vede che sa di vincere, e lo sa non perché lo dicono i sondaggi, ma perché è riuscito a manipolare abbastanza l’elettorato e sa di avere sufficiente personale “di fiducia” per lo spoglio delle schede.  

Difatti Kenyatta ha vinto, con il 54,3% dei voti, dieci punti in più dell’avversario. Ma Raila Odinga, quando hanno incominciato ad affluire i dati e si è visto sconfitto, subito ha contestato i risultati, sostenendo che il programma elettronico adottato dalla Commissione elettorale era stato hackerato. Poi, alzando i toni, ha rifiutato di riconoscere la vittoria  di Kenyatta, ottenuta con “brogli massicci”: “è la peggiore elezione di tutta la storia del Kenya – ha dichiarato ai giornalisti il giorno dopo il voto – mai come questa volta gli elettori sono stati defraudati”. 

Quando, poche ore dopo, si è diffusa la notizia che a Nairobi, la capitale, la Nasa stava festeggiando la vittoria di Odinga e del candidato alla vicepresidenza Kalonzo Musioka si è incominciato a temere il peggio. Odinga infatti, invece di attendere che la Commissione elettorale annunciasse i dati ufficiali, si era autoproclamato vincitore suscitando l’euforia dei suoi sostenitori. Si sono verificati da allora i primi gravi disordini a Nairobi e nelle province Kikuyu a nord della capitale, con morti, feriti, distruzione e saccheggio di negozi e proprietà. 

La vittoria di Kenyatta è stata ufficialmente proclamata dalla Commissione elettorale nella tarda serata dell’11 agosto. Il giorno successivo gruppi di sostenitori di Odinga, delusi e rabbiosi, hanno organizzato manifestazioni violente di protesta a Kisumu, la città feudo di Odinga, e negli slums in cui si concentrano i Luo emigrati nella capitale e in altre città. Intervenuta per fermare i dimostranti, la polizia, stando alle dichiarazioni ufficiali e alle testimonianze raccolte da alcune agenzia di stampa, ha ucciso almeno 11 persone, tra cui una ragazzina. Però la Nasa sostiene che invece i morti sono più di 100, inclusi dieci bambini, tutti uccisi brutalmente da agenti di polizia che sarebbero anche stati visti gettare tra i rifiuti i cadaveri chiusi in sacchi di plastica. 

Il ministro dell’interno Fred Matiang’i smentisce. Nega che la polizia abbia agito brutalmente. I disordini sono circoscritti, dice, azioni di “soggetti criminali” e non legittime proteste politiche: “diciamo la verità – ha affermato durante una conferenza stampa il 12 agosto – non si tratta di dimostrazioni di protesta, ma di persone e gruppi che saccheggiano i negozi, fanno danni a persone e cose. Sono dei criminali e ci aspettiamo che la polizia li tratti come tali”. 

Per contro il senatore James Orengo, uno dei dirigenti della Nasa, replica che i morti per mano della polizia fanno parte di un piano accuratamente messo a punto dal partito di Kenyatta e dalle forze di sicurezza per alterare il voto, reprimere il dissenso e poi nascondere le prove. 

C’è una parte di vero nelle parole del ministro Matiang’i. In Africa quasi sempre gruppi di giovani approfittano delle manifestazioni di protesta per compiere atti di vandalismo e saccheggiare negozi. Se fosse anche vero che i morti non sono più di cento, vorrebbe dire che la Nasa sta diffondendo false notizie per esasperare i propri sostenitori e indurli a reagire. È così che sono iniziati gli scontri del 2007, con accuse reciproche di attacchi, stragi, devastazioni. 

Resta il fatto che la denuncia della Nasa secondo cui qualcuno si è inserito nel sistema informatico della Commissione elettorale per alterare il voto andrebbe verificata. Invece probabilmente non succederà. In tutto questo è da sottolineare il ruolo degli osservatori internazionali, tra cui quelli dell’Unione Europea, tutti concordi nel definire molto credibili e trasparenti le elezioni kenyane. Nessuno che abbia chiesto una indagine sulla correttezza dei conteggi. Franco Nofori, corrispondente dal Kenya del quotidiano on line Africa ExPress, giustamente osserva che questo atteggiamento appanna la credibilità degli osservatori. Va aggiunto che giudicare “trasparenti” delle elezioni, come spesso succede passando sopra a intimidazioni, irregolarità, brogli e peggio ancora, vuol dire legittimare a livello internazionale i vincitori, privare di argomenti chi poi, con fondata ragione, ne mettesse in discussione il diritto a governare.