Kenya: anche i bambini vittime della setta suicida
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Sale a 211 il conto dei cadaveri ritrovati nella foresta di Shakahola, teatro della predicazione del "pastore" Nthenge che prometteva la salvezza attraverso la morte per fame. Un delirio messianico che ha spinto persino le madri a lasciar morire i propri figli.
È salito a 211 il numero dei cadaveri riesumati in Kenya, nella foresta di Shakahola, sede e rifugio dei seguaci della Good News International Church (Chiesa internazionale della buona novella) di Paul Mackenzie Nthenge, il “pastore” che annunciava la fine del mondo e prometteva la salvezza (l’incontro con Gesù!) a chi era disposto a lasciarsi morire di fame.
Fortunatamente sono state trovate in vita ed è stato possibile mettere in salvo decine di persone, forse 200, alcune gravemente debilitate tanto da renderne necessario il ricovero in ospedale. Ma le vittime sono destinate ad aumentare. Si contano infatti almeno 610 dispersi, dei quali hanno denunciato la scomparsa i famigliari accorsi presso i centri istituiti dalle autorità a Malindi, la città che si trova a pochi chilometri da Shakahola.
La maggior parte dei corpi, in tutto 211, sui quali è già stata effettuata l’autopsia, presentano effettivamente segni di estrema denutrizione, ma ce ne sono diversi che invece mostrano segni di morte per percosse, strangolamento e soffocamento. Potrebbe trattarsi di fedeli che hanno cercato di abbandonare il culto e che sono stati uccisi perché considerati dei traditori, come racconta Titus Katana, l’uomo che per qualche tempo è stato l’assistente del predicatore e che adesso aiuta la polizia. Più probabilmente sono stati uccisi per impedire che raccontassero da che cosa erano fuggiti.
Dal 14 aprile, quando è iniziata l’indagine, le ricerche hanno portato alla scoperta di molte fosse comuni: corpi sepolti frettolosamente, a mala pena coperti da poche palate di terra, all’aperto o nelle capanne dai pavimenti di terra battuta. A volte si tratta di intere famiglie, padre e madre rinvenuti accanto ai figli. Più di metà delle vittime sono minorenni, per lo più bambini sacrificati dagli stessi genitori. Titus Katana ha spiegato come mai. Tutto era pianificato, ha raccontato alle autorità: «per primi dovevano morire i bambini, poi gli adulti non sposati, quindi le madri e i capifamiglia, per ultimi i capi della chiesa». Altri testimoni hanno confermato l’esistenza di un preciso progetto in base al quale tutti i bambini sarebbero dovuti morire a marzo, seguiti dalle donne ad aprile e dagli uomini a maggio.
Un poco alla volta, inoltre, sono emersi dettagli terrificanti relativi al trattamento brutale riservato ai bambini. Katana, intervistato dal New York Times e dal Sunday Times, ha rivelato che ai bambini si imponeva di digiunare stando al sole, “così sarebbero morti più in fretta”. Oppure venivano chiusi in una capanna per cinque giorni, senza cibo né acqua: “poi venivano avvolti in un lenzuolo e seppelliti, anche quelli che respiravano ancora”.
Lascia attoniti che qualcuno creda il suicidio una cosa buona, tanto da meritare la salvezza eterna, e che morire volontariamente di fame sia il mezzo per incontrare Gesù. Nel Vangelo, quante volte Gesù dimostra di avere a cuore la salute dell’uomo, il suo benessere fisico, fino a moltiplicare pani e pesci, preoccupato che a nessuno mancasse il cibo quel giorno che in tanti si erano riuniti attorno a lui per ascoltarlo. Ma se si crede che il suicidio per fame sia la vera via, allora prima è meglio che muoiano i figli e solo dopo i genitori: se no resterebbero soli, senza nessuno che si occupi di loro e, disorientati, soprattutto i più piccoli, privi di guida di sicuro non obbedirebbero all’ordine di digiunare fino alla morte.
Una madre africana può sopportare il pianto dei propri figli affamati, sa di doverlo fare: in questo momento la carestia incombe su gran parte dell’Africa orientale, il Kenya incluso. Da mesi malnutrizione e denutrizione mettono in pericolo la vita di milioni di persone, i bambini più che gli adulti. Per tradizione, d’altra parte, si è sempre ritenuto giusto che mangiassero prima e meglio i maschi adulti. Dove ancora succede, nel frattempo si intrattengono con racconti e distrazioni i bambini affamati finché viene il turno loro e delle donne, che si devono accontentare di quel che avanza. Per la buona causa di matrimoni combinati nell’interesse famigliare e comunitario, molte madri, e i padri con loro, tuttora accettano persino che le loro figlie subiscano mutilazioni genitali femminili dolorosissime, a rischio della vita e nella certezza di permanenti conseguenze menomanti; e poi le costringono a sposare uomini scelti senza consultarle, spesso consegnandole ai mariti quando ancora sono poco più che bambine.
Ma esporre i figli al sole (il sole africano!) finché muoiono e seppellirli vivi: non può esserci un Dio che pretende tanto, non certo il Dio di Abramo, che lo mise alla prova, ma ha salvato Isacco. Si vorrebbe scoprire, dalle testimonianze man mano raccolte, che almeno qualcuno, pur avendo deciso di uccidere i figli negando loro il cibo, non li ha lasciati morire da soli, sofferenti, terrorizzati e disperati, ma fino all’ultimo li ha cullati, consolati, rassicurati confidando di trovarsi con loro di lì a poco al cospetto di Dio.
Finora, invece, racconti ed evidenze evocano immagini di disumana, spietata follia. Su tutte, l’immagine di un uomo lucido, che ha agito con cinismo, per interesse. Paul Mackenzie Nthenge preparava alla morte i suoi seguaci, ma intanto vendeva loro terreni e proprietà. Così si arricchiva e con traffici sui quali le autorità kenyane stanno indagando.