Kampowski: rovesciare la morale distrugge l'uomo
Dietro i tentativi di "aggiornare" la morale si cela una visione erronea dell'essere umano. Non ci sono "regole" puramente esteriori da cambiare a piacimento, perché nessuna azione è soltanto esteriore, ma finisce per mutarci in profondità. Con il pretesto di "aggiornare" la morale non la si rende più facile, ma si travisa il nesso essenziale tra la persona e i suoi atti.
Che cosa si nasconde veramente dietro il “cambio di paradigma”, espressione tenuta a battesimo dal cardinale Walter Kasper, da Amoris Laetitia, adottata da papa Francesco in Veritatis Gaudium, ed ora cavalcata dalla Pontificia Accademia per la Vita? Secondo i suoi sostenitori, si tratterebbe di un’impostazione morale più vicina alla persona, più attenta alla concretezza della situazione, più rispettosa della sua coscienza. Gli assoluti morali si sgretolano, lasciando al massimo come unico superstite la regola aurea o il principio morale kantiano; l’assolutezza della legge naturale si dissolve, incalzata dal primato dell’ermeneutica che non riesce a superare la dimensione puramente storica degli asserti, portando a sostenere interpretazioni, non verità. Sgretolamento e dissoluzione che sono la condizione necessaria per una morale della persona matura e consapevole.
Il “cambio di paradigma” si renderebbe in sostanza necessario per porre la coscienza al riparo da norme esterne, da una legge per sua natura universale e “astratta”, incapace di cogliere la singolarità e della situazione e della persona. Molteplicità delle circostanze, relatività della storia e della cultura, autonomia della coscienza sono i nuovi imperativi che devono spingere anche la Chiesa a rinnovare la propria impostazione morale, sostanzialmente. In realtà, il nuovo paradigma è a tutti gli effetti un enorme passo indietro, che dimostra quanto poco si sia compreso della teologia morale di Tommaso d’Aquino e del rinnovamento morale promosso da Giovanni Paolo II, soprattutto negli anni del suo pontificato. Il nuovo paradigma nasce vecchio, vecchio più del moralismo manualistico che non riusciva ad uscire dalla dialettica libertà- verità, norma-coscienza.
Ma quale idea di uomo rivela il nuovo paradigma? A quale concezione della vita umana conduce la dissoluzione auspicata degli assoluti morali? La nuova pubblicazione di Stephan Kampowski, Ordinario di Antropologia Filosofica al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, per le edizioni Cantagalli, Il caso serio della vita. La morale cristiana tra autonomia e libertà del dono, dà una risposta a queste domande. Come scrive nella prefazione Mons. Livio Melina, «ciò che smarrisce il cosiddetto “nuovo” paradigma è il mistero dell’agire morale stesso, cioè quel nesso intimo tra la persona e il suo atto, per cui il soggetto agente, mediante le sue scelte libere, non solo produce mutamenti nel mondo esteriore, ma muta se stesso, in qualche modo generando la propria identità etica». È per questa ragione che il martirio non solo continua ad avere un senso, ma rivela il “caso serio della vita”. Lì emerge con estrema chiarezza che esiste qualcosa che non è mai accettabile, neanche con le migliori intenzioni del mondo. Perché l’interiorità dell’uomo ha il suo campo di verifica e realizzazione nella scelta effettiva di un oggetto morale. La scelta morale “esterna” non è affatto estranea a chi la compie.
Una visione della vita morale, per certi aspetti gnostica, vorrebbe che l’unico aspetto di rilievo etico sia l’intenzione del soggetto che agisce; un’intenzione puramente interiore, capace di plasmare la materia “informe” degli atti concreti. Di nulla si può dire che sia sempre assolutamente male, perché la nota morale ultima viene data dall’intenzione interiore. Ad andare perduto è il duplice aspetto dell’intenzione che Elizabeth Anscombe, cui Kampowski fa ampiamente riferimento nel suo libro, indicava in ciò che viene fatto di proposito, intenzionalmente, e l’intenzione ulteriore con la quale le persone fanno ciò che fanno di proposito. La prima è ciò che faccio: si tratta dell’intenzionalità insita nell’atto stesso; la seconda è lo scopo che mi prefiggo facendo quella cosa. Robin Hood poteva rivendicare uno scopo nobile per i suoi furti, nondimeno, quello che stava facendo era però pur sempre rubare (intenzionalità intrinseca).
Kampowski dedica tre capitoli del volume ad Humanae vitae, enciclica che continua ad essere al centro del tentativo di dare una spallata al “vecchio paradigma”. Uno dei bersagli privilegiati dell’attuale Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, Mons. Vincenzo Paglia, e del Preside del Giovanni Paolo II, Mons. Philippe Bordeyne, è proprio l’insegnamento contenuto nell’enciclica di Paolo VI, laddove la contraccezione viene condannata sempre e comunque, a motivo dell’intenzionalità propria dell’atto, prescindendo pertanto dall’intenzione ulteriore. Scrive Kampowski: «Il problema della contraccezione non consiste nell’intenzione di avere rapporti sessuali senza avere bambini: consiste nell’intenzionalità insita nell’atto stesso della contraccezione, in ciò che le persone fanno di proposito quando praticano la contraccezione».
E cosa fanno di proposito le persone che ricorrono alla contraccezione? Rendono deliberatamente infecondo un atto sessuale, trasformandolo da atto coniugale, quindi di tipo generativo (anche se non sempre conduce alla generazione), ad un atto puramente sessuale. È proprio per questo che – per quanto l’affermazione possa sembrare esagerata – l’accettazione morale della contraccezione, cioè di un atto sessuale privato della dimensione generativa, è la base fondamentale per l’accettazione dei rapporti omosessuali. È ancora la Anscombe a spiegare che «se va bene cambiare il carattere dell’atto sessuale che si intende compiere da atto di tipo generativo a qualcos’altro rendendolo infecondo […], precisamente per avere il rapporto sessuale, allora è ben difficile pensare che vi sia qualcosa di sbagliato in quegli altri atti, poniamo di masturbazione reciproca o di rapporti omosessuali».
Kampowski ha ragione da vendere quando fa notare che se la sessualità è resa intrinsecamente sterile, allora essa diviene null’altro che scambio di affetto, nella migliore delle ipotesi. Ma per scambiarsi affetto la differenza sessuale non è indispensabile; ed è per questo che «il percorso dall’ampia accettazione sociale della contraccezione al cosiddetto “matrimonio gay” e alla teoria del gender è uno solo». Non è una casualità che il contemporaneo attacco interno alla Chiesa cattolica muova sia gli alfieri contrari alla contraccezione che i cavalli favorevoli alle coppie gay.