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LA TESTIMONIANZA

Jahola: "In Iraq i cristiani rischiano l'estinzione"

Testimonianza da un sacerdote cristiano di Qaraqosh, la città cristiana dell'Iraq considerata "ultimo rifugio" per le minoranze, finché non è anch'essa stata espugnata dall'Isis. Don Georges Jahola ci spiega come i cristiani rischino di scomparire dall'Iraq.

Libertà religiosa 16_08_2014
Cristiani in Iraq

Don Georges Jahola canta un Padre Nostro in aramaico, a Milano, al museo del Duomo. «Potrebbe essere una delle ultime volte che sentite questa lingua, prima che si estingua», avverte il pubblico. Georges Jahola, in Italia per completare gli studi del dottorato in Scienze Bibliche presso la Pontificia Università Lateranense, è un cristiano iracheno, probabilmente uno degli ultimi, nato e vissuto nella città di Qaraqosh. Caduta alla fine del mese scorso, questa città aveva dato ospitalità a tanti cristiani fuggiti da Mosul ed era considerata uno degli “ultimi rifugi sicuri”. Finché non sono entrate le milizie jihadiste dell’Isis. Abbiamo incontrato don Georges a Milano, in Piazza Duomo. In occasione della giornata di preghiera per i cristiani perseguitati in Iraq, infatti, la Scuola della Cattedrale di Milano, la Veneranda Fabbrica del Duomo, e il Tribunale Rabbinico del Centro Nord Italia, hanno organizzato un evento multi-confessionale. Hanno parlato ebrei, cristiani e musulmani, ciascuno con le proprie storie di persecuzioni passate e presenti, con il proprio messaggio di condanna contro la violenza commessa “nel nome di Dio”.

Padre Georges Jahola, quando si parla di persecuzione dei cristiani in Iraq, sembra quasi che si tratti di un atto di violenza improvviso e inaspettato. È così?
In quest’ultimo caso, per quanto riguarda la città di Qaraqosh, possiamo dire che sia stata una persecuzione improvvisa. La situazione è crollata quando i Peshmerga, le milizie curde, si sono ritirate all’improvviso. Non sappiamo ancora il perché si siano ritirati. Ma noi cristiani abbiamo dovuto immediatamente abbandonare immediatamente le nostre case. Non così si può dire per i musulmani che, anche dopo l’entrata delle milizie dell’Isis, si sentono ancora a casa loro. Noi temiamo di essere eliminati dall’Iraq, perché siamo pochi. Qualcuno deve rimanere, per raccontare alle generazioni future quel che è successo.

Negli anni scorsi si parlava ancora della Piana di Ninive (dove si trova Qaraqosh) come di una possibile regione autonoma cristiana…
La provincia di Ninive, in particolare la città di Qaraqosh, è stata la più accogliente in assoluto. Non solo in quest’ultima guerra, ma in tutti i conflitti precedenti, penso alla Guerra del Golfo del 1991 e quella del 2003. Anche in questo caso, non appena le milizie dell’Isis hanno conquistato Mosul, tutti i profughi, cristiani e non cristiani, erano subito arrivati nella nostra città a cercare protezione, come durante gli altri conflitti. Purtroppo anche questo è perduto, non solo come rifugio, ma anche come eredità culturale e religiosa cristiana. Perché è stato uno dei centri storici dell’evangelizzazione, nel corso dei millenni, di un processo pacifico svolto da missionari armati solo del loro Vangelo. Qaraqosh potrebbe essere ancora il luogo da cui ricostruire l’Iraq.

L’Isis promette di risparmiare la vita ai cristiani che tornano, pagando un riscatto per le loro proprietà. Qualcuno si fida?
Non penso proprio, perché abbiamo visto come si comportano. Non ci fidiamo più. Abbiamo già preso le nostre scottature.

Si parla sempre del silenzio dell’Occidente, ma anche il governo di Baghdad non sembra essere molto interessato…
Infatti, il governo di Baghdad è paralizzato dalle sue lotte interne di potere. Non gli importa il resto dell’Iraq, altrimenti avrebbero già potuto dedicare molti più sforzi per proteggere queste città, soprattutto la provincia di Ninive. Quella di Baghdad è una dimostrazione palese di egoismo del potere. E nonostante tutto quel che di pessimo è successo finora, il premier Al Maliki (che ha dovuto rassegnare le dimissioni ieri, ndr) non vuole far altro che riprendere il potere. Questo ci fa soffrire molto.

Lei ha assistito a due guerre, una guerra civile e una persecuzione di cristiani. Quando i cristiani hanno iniziato a subire il peggio?
Sicuramente dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003. Prima della guerra, la vita dei cristiani non era molto differente da quella delle altre fasce della popolazione irachena. Il cristiano è un buon cittadino, rispetta la legge, è generoso verso gli altri e per questo viene rispettato: questo era il nostro modus vivendi ai tempi della dittatura. Con questo non vorrei sembrare un nostalgico del regime di Saddam, ma per noi, finora, è stato il male minore.

Se la piana di Ninive non dovesse essere liberata, dove andrete?
Dal 2003 ad oggi, i cristiani non si sono soltanto dimezzati: sono meno di un terzo della popolazione originaria. C’è paura del futuro, in 11 anni non è cambiato nulla, non si pensa ad altro che scappare e a cercare una vita nuova all’estero. Oggi, di sicuro, rimane soltanto il Kurdistan, regione autonoma ormai di fatto indipendente. Ma famiglie intere, non soltanto giovani, non ne vogliono più sapere dell’Iraq ed emigrano in altri continenti. Svuotare il Paese del cristianesimo, però, contribuisce a eliminare il cristianesimo dal Medio Oriente, che per tutti noi è una testimonianza essenziale. Altrove perdiamo tutto, a partire dalla nostra identità.

Ma è ancora possibile coesistere con una maggioranza musulmana?
Abbiamo molti amici musulmani. Molti di loro ci davano informazioni in tempo reale di quel che stava avvenendo. Solo chi ha subito un lavaggio del cervello, segue la via fanatica della jihad. È sempre possibile ricostruire i rapporti con i musulmani, specialmente in Iraq che è sempre stato molto accogliente, per tutti.