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RAZZISMO DI RITORNO

Jacobs e Biles, le Olimpiadi non hanno colore

Marcell Jacobs è bianco o nero? Molti lo stanno chiedendo a Google. Una cosa è certa: è oro e il suo risultato è già nella storia. Il razzismo, nelle Olimpiadi, cessa di esistere di fronte alla competizione sportiva. A meno che l'ideologia non lo tiri in ballo a tutti i costi, come nel caso del ritiro di Simone Biles. 

Editoriali 02_08_2021
Marcell Jacobs

Marcell Jacobs è bianco o nero? Molti se lo stanno chiedendo: la domanda è una delle principali rivolte al motore di ricerca Google nella giornata di ieri. Bianco o nero che sia: è oro. Ed è una medaglia d’oro storica: ha battuto il record europeo dei 100 metri, con un tempo di 9 secondi e 80. Assieme a Gianmarco Tamberi, che ieri ha saltato in alto 2,37 metri, pur pochi anni dopo un brutto infortunio, ieri ha fatto giornata. Il medagliere olimpico italiano ha raddoppiato gli ori (da 2 a 4) in appena dieci minuti.

Jacobs è mezzo americano, mezzo italiano, anche se parla con uno spiccato accento lombardo orientale, è nato in Texas, ma è cresciuto a Desenzano sul Garda, in Lombardia. La sua vittoria è una di quelle che dimostrano che lo sport batte ogni forma di razzismo: nessuno si sogna di protestare perché il vincitore non è un “italiano doc”. Non verrebbe in mente neppure al peggiore dei guastatori da social network. Nel mondo della politica la vittoria è stata accolta con un’ovazione unanime, dall’estrema destra all’estrema sinistra. L’importante è essere i più bravi e rispettare chi non vince, a prescindere dal colore della pelle e dall’origine. E’ sempre stato così, anche se la politica ha provato più volte a mettersi di traverso. Come nelle celeberrime Olimpiadi di Berlino del 1936, quelle in cui Hitler si rifiutò di stringere la mano a Jesse Owens (versione dei fatti poi smentita da ricostruzioni successive e dalle memorie dello stesso Owens, ndr), vincitore di quattro ori (fra cui i 100 metri). Il suo rivale diretto, il tedesco “ariano” Luz Long, medaglia d’argento nel salto in lungo, divenne suo amico nella vita. Rimasero in contatto fino allo scoppio della guerra. Poi Owens continuò a frequentare la famiglia, visto che Long venne ucciso sul fronte italiano (dagli americani) a Gela, nel 1943.

Nello sport il razzismo non esiste, a meno che non venga chiamato in causa, a tutti i costi, anche dalla politica democratica e progressista di queste Olimpiadi di Tokyo 2020. La campionessa statunitense di atletica Simone Biles, afro-americana con un passato di miseria ed emarginazione, nonché vittima di abusi sessuali (del fisioterapista della nazionale statunitense), poteva essere una magnifica storia di riscatto. La è stata finora, con 19 medaglie vinte nei campionati mondiali e alle scorse Olimpiadi di Rio 2016. Ma si è ritirata dalle gare. Ha sicuramente i suoi motivi per averlo fatto, ma il problema è che i media, che avevano già investito tutto sulla sua vittoria, ora stanno avendo una reazione sconcertante. Invece di una delusione comprensibile o del doveroso rispetto per la persona che si ritira dalla competizione, citano la Biles come un esempio di “coraggio” e di “liberazione dalla schiavitù della fama”. E’ un coro unanime che va dal Guardian britannico (“Il suo più grande successo”) a The Week (“La forza richiede di ritirarsi quando sai che la pressione dell’inevitabile reazione dei fans delusi e dei compagni di squadra sta diventando insopportabile”). La rivista Elle scrive del ritiro di Simone Biles e della giapponese Osaka che, da atlete olimpioniche, “non ci devono nulla” (a noi spettatori). E allora perché gareggiano in pubblico?

Nel sottobosco delle pagine Facebook di siti femministi e di cooperative progressiste, anche in Italia, leggiamo vere forzature ideologiche, come: “Impariamo da Simone: impariamo a dire di no. Liberiamo i nostri ragazzi (e anche noi stessi) da questa perversione. Insegniamo loro a rifiutare questa medaglia d’oro avvelenata”. Oppure: “Siamo stanch* della cultura del vincere sempre, a tutti i costi. Siamo stanch* della cultura del non mollare mai, della iperproduttività, dell'essere sempre sul pezzo, competitivi, dell'avere mordente, del non arrendersi mai. Non siamo martiri. Vogliamo lentezza” (asterischi dell’autore, ndr).

Ma questo non è più sport. E’ ideologia. E l’unica ragione per cui il caso di Simone Biles viene politicizzato è il colore della sua pelle. Non si leggerebbero frasi sul suo conto come “vittima del terrorismo che la povertà esercita sui neri”, o “cresciuta in una società dominata dal razzismo sistemico”, soprattutto quando si sta parlando di un'atleta celebrata in tutto il mondo con 19 ori alle spalle. Questo è il vero razzismo del 2021: parlare di un personaggio pubblico badando, prima di tutto, al colore della sua pelle. Anche sulla vittoria di Jacobs, al trionfo è seguita subito la polemica, nel momento in cui Giovanni Malagò, presidente del Coni, ha dichiarato: "Non riconoscere lo Ius soli sportivo è qualcosa di aberrante, folle. Oggi più che mai il discorso va concretizzato. A 18 anni e 1 minuto chi ha i requisiti deve avere la cittadinanza italiana". Il tutto detto subito dopo la vittoria di un cittadino italiano, di madre italiana. Non è un immigrato, né è figlio di immigrati appena sbarcati. Quindi è un discorso veramente tirato per la giacchetta per riaprire il dibattito politico sull'accoglienza (come puntualmente avvenuto: basti vedere la rincorsa al commento nei tweet dei politici).

Meglio, molto meglio, godersi la vittoria sportiva e lasciare la gente a punto di domanda: a chiedere a Google se l'oro italiano sia veramente nero o bianco.