Italo Calvino, alle origini della sua continua ricerca
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Calvino appare riluttante alle definizioni, sempre desideroso di scoprire ciò che sta sotto le parole attraverso un percorso di conoscenza. Le radici di questo carattere sono da rintracciarsi nella sua infanzia, nella sua "articolata" resistenza all'educazione di genitori laici e molto avventurosi.
Calvino appare riluttante alle definizioni, sempre desideroso di scoprire ciò che sta sotto le parole attraverso un percorso di conoscenza.
Il suo atteggiamento si cela sotto le fattezze di Amerigo Ormea, protagonista del romanzo La giornata di uno scrutatore (romanzo su cui torneremo nelle prossime puntate), che si libera nel corso della storia dello sguardo ideologico che è in lui presente all’inizio, quando è convinto di sapere già, di conoscere già, non riesce, quindi, a sorprendersi di fronte al reale. II verbo «sapere» è centrale nel secondo capitolo («Amerigo queste cose le sapeva», «sapeva che una giornata triste e nervosa lo attendeva»). Un conto è, però, sapere, un altro è scoprire e così conoscere.
Per Amerigo le parole «comunismo», «istituto religioso», «Cottolengo», «democrazia» hanno un significato ben preciso, ma non sono frutto di un percorso di conoscenza, di un’esperienza fatta su di sé e nella realtà in azione. Ormea più che vivere con sorpresa la vita e incontrare la realtà si muove in modo cerebrale e si lascia andare alle sue operazioni mentali.
L’antitesi allo sguardo ideologico è la scoperta della realtà, ben documentata dalla novella di Pirandello Ciàula scopre la Luna in cui il protagonista fa la scoperta sulla bellezza della realtà. Costretto a lavorare in miniera per tante e tante ore, fin da piccolo Ciàula aveva provato paura per il buio della notte. Lavorava spesso anche la notte, «laggiù, tanto, era sempre notte lo stesso». Ciàula si muoveva «cieco e sicuro» nelle «viscere della montagna» come se fosse «dentro il suo alvo materno». Non aveva paura del buio della miniera. «Aveva paura, invece, del bujo vano della notte», perché non lo conosceva. Un giorno, ritornato in superficie dopo l’estenuante fatica,
restò […] sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Sì, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna... C’era la Luna! la Luna! E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, […] né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore.
La scoperta della Luna è la rivelazione di una presenza che è più grande di noi e che esiste a prescindere dalla nostra consapevolezza. Si può vivere senza cogliere la bellezza che ci circonda, senza palpitare di meraviglia. Ora Ciàula si rende conto che nessuna fatica, nessun limite, nessuna circostanza ci definiscono e ci schiacciano. Quando si è pieni di stupore, anche la fatica non si sente più.
Anche Calvino appare simile a Ciàula, perché cerca «di scoprire quello che c’è realmente sotto le parole delle ideologie» (intervista a Claude Couffon del 1966), perché vorrebbe «poter insegnare […] un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro» (lettera a François Wahl del 1960), perché scrive per imparare qualcosa che non sa.
Quali sono le radici di questo tentativo costante di non fermarsi mai a quanto gli è stato comunicato e ha appreso, di attraversare la cultura dominante senza fermarsi mai alla presunzione di aver compreso e descritto la realtà? Le radici sono probabilmente da ricercarsi nella reazione di Calvino al tipo di dimensione culturale e scientifica che respirò fin da piccolo.
Il padre Mario, nativo di Sanremo, era un agronomo e botanico, che fu coinvolto nel fallito attentato allo zar Nicola II nel 1907, in quello che fu chiamato "caso Calvino”: l’attentatore era infatti in possesso del passaporto di Mario Calvino, passaporto che risultò autentico nelle successive indagini compiute. Non si comprese mai come ciò fosse potuto avvenire. Mario Calvino decise di abbandonare l’Italia per l’America, appena possibile, e partecipò alla rivoluzione messicana di Pancho Villa nel 1913. Dal 1917 iniziò a dirigere la Stazione sperimentale agronomica di Santiago de la Vegas.
La madre di Italo Calvino, Eva Mameli, nativa di Sassari, laureata in Scienze naturali, fu la prima donna in Italia a conseguire la libera docenza in botanica (1915). Calvino la ricorda come «una donna molto severa, rigida nelle sue idee tanto sulle piccole che sulle grandi cose» (così in un’intervista rilasciata a Ludovica Ripa di Meana). Anche il padre appare come una personalità forte, «austera e burbera», tutto sommato una figura che può più facilmente diventare un personaggio narrativo rispetto alla madre, perché manifesta atteggiamenti più collerici e rumorosi ed è un vecchio ligure, radicato nella sua terra e che ha girato il mondo.
Mario Calvino e la Mameli si conobbero in Italia nel 1920, si sposarono in breve tempo e seguirono insieme il progetto della Stazione di Santiago, fino al 1925, quando un uragano distrusse la Stazione e i due sposi ritornarono in Italia, a Sanremo, per seguire un progetto di Stazione sperimentale di floricoltura. Nel frattempo, il 15 ottobre 1923 era nato Italo Calvino.
«Un’educazione assolutamente laica» annoterà Calvino «può essere molto più repressiva di quella cattolica». La reazione di difesa nei confronti dei genitori potrebbe naturalmente comportare delle perdite, ne è ben cosciente Calvino, e in questo caso tanti apprendimenti che potrebbero essere acquisiti vengono, invece, persi. Scriverà Calvino:
L’unico modo per un figlio per non essere schiacciato da personalità forti era opporre un sistema di difese. […] Devo dire però che il mio temperamento mi ha portato sempre a sistemi di rifiuto articolati, mai assoluti. Così anche le mie adesioni: tutte le volte che ho aderito a qualcosa, che ho creduto d’identificarmi con qualcosa mi sono portato dietro le mie riserve, i miei distinguo, e quel tanto di distacco che permette di guardare le cose da fuori (intervista 1980 a cura di Ludovica Ripa di Meana).
Il giovane Calvino sentì l’educazione ricevuta come costrittiva e imbrigliante. Sarebbe rimasto per tutta la vita refrattario a qualsiasi ipotesi pedagogica programmatica tanto che scrive:
mi piacerebbe insegnare il modo di opporre resistenza a tutte le pedagogie correnti che vengono imposte dall’ambiente e che sono tutte fasulle e balorde per definizione.
Forse, si comprende meglio perché Calvino si sia prima iscritto alla Facoltà di Agraria all’Università di Torino nel 1941 per passare successivamente, terminata la Seconda guerra mondiale, a quella di Lettere, assecondando una passione per la scrittura che era già emersa negli anni precedenti, conservando però sempre il fascino per le discipline scientifiche, come si vede nell’età matura con la stesura di romanzi e racconti che riflettono sulle nuove frontiere della scienza e della tecnica.
Cresciuto con genitori che erano abituati a classificare, catalogare tutta la realtà, a definire, racchiudere, circoscrivere, Calvino ora è in continua ricerca, lontano dai cataloghi e dalle definizioni.