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DIFESA

Italiani in Libia, tutti i rischi dell'operazione Ippocrate

Dopo mesi di non-interventismo dichiarato, in Libia verrà costituito un ospedale militare italiano a Misurata, presidiato da un piccolo contingente di paracadutisti e unità selezionate di Marina e Aeronautica. Il rischio è quello di trovarci in mezzo a una nuova guerra civile, oltre che subire il terrorismo jihadista.

Esteri 15_09_2016
Paracadutisti della Folgore: proteggeranno l'ospedale

Dopo un anno di incertezze, iniziative smentite e soprattutto di confusione l’Italia ha finalmente deciso di inviare una missione militare in Libia. Nulla di particolarmente rilevante e non certo una missione che influenzerà gli eventi nella nostra ex colonia, ma si tratta pur sempre di una iniziativa che Roma assume dopo che, per tutta l’estate, Matteo Renzi aveva sempre escluso categoricamente” avventure militari in Libia”.

In attesa di comprendere cosa abbia fatto cambiare idea al presidente del consiglio, è meglio chiarire subito che l’operazione Ippocrate avrà compiti esclusivamente sanitari, nonostante i dubbi sollevati a sinistra e in alcuni ambienti pacifisti, sospettosi che l’ospedale da campo servisse a coprire altri compiti. Le forze schierate sono troppo esigue: il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha spiegato che il contingente di 300 militari comprenderà 65 medici e infermieri, 135 addetti alla logistica e 100 paracadutisti del 186° reggimento di Siena. Forze appena sufficienti a mantenere in servizio costante un plotone rinforzato (una trentina di uomini) per la difesa della base nei pressi dell’aeroporto di Misurata e la scorta ai veicoli e la sicurezza della base adiacente all’aeroporto di Misurata. All’aeroporto resterà parcheggiato un aereo cargo tattico C-27J dell’Aeronautica, mentre una nave della Marina verrà distaccata dall’operazione Mare Sicuro per eventuali emergenze. I compiti della missione, che benché così limitata nei numeri e nei compiti verrà guidata da un generale, riguardano la cura dei feriti registrati dalle milizie di Misurata nella lunga battaglia contro lo Stato Islamico a Sirte. Battaglia non ancora conclusa, nonostante i 150 raid aerei statunitensi, in cui i miliziani fedeli al governo di Tripoli hanno registrato oltre 500 morti e più di 2.500 feriti.

Per almeno due ragioni, l’operazione italiana, anticipata in agosto da una ricognizione per individuare il luogo dove basare il contingente, prende il via con la tempistica sbagliata. Come ha riferito Fausto Biloslavo su Il Giornale, citando fonti militari di Misurata, la battaglia di Sirte è quasi terminata e i combattenti libici avevano bisogno dell’intervento sanitario italiano un mese or sono. Oggi l’intensità degli scontri è calata, il numero di feriti anche e molti dei combattenti colpiti nei mesi scorsi sono stati ricoverati in ospedali turchi e tunisini, anche se alcune decine di casi gravi vennero trasferiti con aerei italiani a Roma per essere curati al Celio. Tempistica sfortunata anche in virtù delle vicende politiche e militari libiche. L’operazione Ippocrate è stata pianificata per insediarsi subito dopo la fine della battaglia di Sirte con la sconfitta dell’Isis. Invece è stata anticipata dai media quando la tenace resistenza degli irriducibili del Califfato è ancora vivace e in concomitanza con il blitz delle truppe del generale Khalifa Haftar che, domenica scorsa, hanno conquistato i terminal petroliferi del Golfo della Sirte.

Il rischio, ora, è che si riapra la guerra civile tra Tripoli e Tobruk in cui le milizie di Misurata sarebbero a contatto con le odiate forze di Haftar. L’Italia si troverebbe quindi “belligerante” al fianco di Misurata e degli altri alleati di Tripoli contro le forze della Cirenaica, guidate dal governo laico di Tobruk (appoggiato da Egitto, Emirati Arabi, Russia e Francia) e che peraltro Roma ha sostenuto fino all’insediarsi a Tripoli di Fayez al-Sarraj. In questo caso non mancheranno certo i feriti da curare per l’ospedale da campo italiano, che entro ottobre metterà a disposizione 50 posti letto, né per i medici italiani destinati a operare all’ospedale civile della città libica che dispone di 150 posti.

Inoltre vale la pena sottolineare che il governo islamista di al-Sarraj è certo sostenuto da Usa ed Europa, oltre che da Turchia e Qatar, ma non è mai stato legittimato dal voto di fiducia del parlamento di Tobruk, come era previsto dagli accordi Onu di Skhirat. Facile quindi evidenziare che, con la missione sanitaria, Roma difende i suoi interessi energetici in Tripolitania, anche se al-Sarraj non può certo definirsi un amico dell’Italia: finora ha respinto le richieste italiane di fermare, o almeno arginare, i flussi di immigrati clandestini che del resto vedono coinvolte molte milizie e tribù che sostengono il suo governo. Tra i rischi insiti nella missione, il più imminente è però rappresentato dalla minaccia dello Stato Islamico che, seppur quasi sconfitto a Sirte, dispone di migliaia di combattenti e di infiltrati in tutte le città, inclusa Misurata. La presenza di 300 militari italiani, in una postazione fissa e con colonne di veicoli in movimento, rischia di attirare terroristi suicidi pronti a morire pur di uccidere i “crociati” o gruppi di fuoco pronti ad attaccare i nostri soldati con razzi  mortai e imboscate alle colonne di veicoli.

D’altra parte, quella italiana sarà l’unica base militare occidentale in tutto il Nord Africa, poiché i contingenti di forze speciali (Usa, britanniche, francesi e italiane) presenti in Libia hanno scarsa visibilità e si muovono prive di uniforme. Inoltre, come ha evidenziato Daniele Raineri su Il Foglio, in caso di guerra l’aeroporto dove è situata la base italiana verrà preso probabilmente di mira dai Mig di Haftar, ferrivecchi come quelli delle forze aeree di Misurata, ma molto pericolosi soprattutto perché utilizzano imprecise bombe a caduta libera.

Se la guerra libica ricorda un po’ quelle intestine all’Antica Grecia, con Tobruk e Tripoli nelle vesti di Atene e Sparta, supportate da alleanze mutevoli con altre città-stato, l’operazione italiana Ippocrate in Libia ha molto in comune con quella dei bersaglieri della Task Force Praesidium in Iraq, presso la Diga di Mosul, situata a pochi chilometri dalle linee dell’Isis. Entrambe vedono centinaia di soldati esposti ad attacchi e attentati senza rivestire nessuna rilevanza tattica o strategica e senza evidenti contropartite politiche incassate da Roma.