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UNA STRATEGIA INESISTENTE

Italia, politica estera senza arte nè parte

Non possiamo illuderci che basti giostrare tra la Francia e la Germania cercando di ritagliarci uno spazio che tra l’altro Parigi e Berlino non intendono affatto darci. Su molti versanti, dal Medio Oriente alla ricostruzione in Siria, il nostro Paese potrebbe per molti motivi dare un contributo positivo nella mitigazione delle tensioni. Nel Palazzo romano ci sarà qualcuno che si occupa di tutte queste cose?

Editoriali 25_07_2017

Ci sono state e magari ci saranno ancora delle epoche in cui, come negli anni della Guerra fredda, la politica estera del nostro Paese poteva soltanto consistere in quella serie continua di saltelli sul posto di cui Giulio Andreotti fu maestro. Adesso però non è più così. Sia verso i Paesi danubiani e balcanici che verso il Levante dobbiamo avere una nostra politica, dobbiamo fare la nostra parte.

Non possiamo illuderci che ci basti giostrare tra la Francia e la Germania cercando di ritagliarci uno spazio che tra l’altro Parigi e Berlino non intendono affatto darci.

Essendo evidente che Francia e Germania, con il devoto sostegno dei Paesi nordeuropei minori ad essi legati, ci stanno scaricando sulle spalle  l’intero peso del problema dell’immigrazione irregolare attraverso il Mediterraneo centrale, non si capisce perché mai in sede europea dobbiamo schierarci a testa bassa dalla loro parte senza prestare alcuna attenzione e ascolto alla linea assunta al riguardo dai Paesi dell’Est riuniti nel gruppo di Višegrad. Le loro ragioni meritano di venire considerate e non stigmatizzate a priori come oggi il nostro governo fa nell’infondata speranza di trovare grazia presso Merkel e Macron. Diciamo ancora una volta che a noi conviene diventare in sede europea il grande Paese di riferimento dei membri danubiani e balcanici dell’Unione. Ciò sia per valorizzarne l’esperienza che per moderarne il disagio. E ci converrebbe pure non lasciare la crisi russo-ucraina soltanto nelle mani di chi sembra più interessato non a risolverla ma a cronicizzarla tenendo così aperta nel cuore dell’Europa centrale una piaga che occorre invece chiudere al più presto.

Quanto sta poi accadendo da Gerusalemme ad Amman conferma che nel caso della crisi israelo-palestinese il tempo non lavora per la pace. Il potenziale di diffidenza, di odio, di incomprensioni e di rancori reciproci, che grava sui due popoli, nei periodi di tregua non si scarica affatto ma anzi si ricarica, pronto poi ad esplodere alla prima occasione. In quale altra parte del mondo avrebbe suscitato una rivolta popolare l’installazione di “metal detector” e di altri congegni di controllo elettronico per filtrare l’ingresso in un luogo dove qualcuno qualche giorno prima, entrato nascondendo armi, con tali armi aveva poi ucciso a sangue freddo  alcuni degli astanti? In quale altra parte del mondo  accade che delle persone pugnalino a morte dei passanti scelti a caso, e poi i loro parenti ricevano per questo telefonate di congratulazione?

L’irragionevolezza e l’entità di tali reazioni danno un’idea del clima di follia collettiva che caratterizza il rapporto tra palestinesi e israeliani e viceversa; e del tipo di percezione che gli uni hanno degli altri. D’altro canto in quale altra parte del mondo una potenza occupante insedia colonie di propri cittadini sul territorio occupato (non annesso) costruendo perciò quartieri e villaggi su terreni allo scopo confiscati? Nessun’altra potenza l’aveva mai fatto prima.

In tale quadro il nostro Paese potrebbe per molti motivi dare un contributo positivo quantomeno alla mitigazione di tutte queste tensioni. Non ha infatti il peso di un passato coloniale nella regione, ha storici buoni rapporti con il mondo arabo, ed è il membro del G7 più vicino al Levante per ragioni sia geografiche che storiche. Anche poi il fatto  che la Santa Sede sia a Roma ha un suo notevole peso. Per questo però occorrerebbe una politica estera che non c’è. Una politica non semplicemente diplomatica ma volta a creare un grande quadro complessivo di co-sviluppo mediterraneo di cui il nostro Paese con il suo forte apparato industriale potrebbe essere un motore primario a nome non solo proprio ma anche di tutto il resto dell’Ue.

Si avvicina inoltre il momento della ricostruzione post-bellica del nord della Siria, ove esisteva un apparato industriale di un certo rilievo con stabilimenti, in particolare tessili, che utilizzavano spesso macchinari italiani. Un governo di Roma che avesse minimamente a cuore gli interessi del Paese si impegnerebbe per facilitare il ritorno della nostra industria delle macchine utensili sul mercato siriano. Lo stesso vale per il nord dell’Iraq dove pure la nostra industria aveva dei mercati, e per il Kurdistan iracheno dove è presente. Nel proverbiale Palazzo romano ci sarà qualcuno che si occupa di tutte queste cose? Se c’è bisogna dire che sta muovendosi con una tale discrezione che non se ne accorge nessuno.