Italia-Argentina: presidente, la storia please
Anche il Quirinale vuole l'invasione dall'Africa come rimedio alla crisi demografica. E usa la retorica del "quando gli emigranti eravamo noi" nel discorso di Mattarella in Argentina. Ma quell'emigrazione funzionò perché c'erano le condizioni di un paese richiedente e bisognoso di popolazione in una cultura assimilabile. Ciò che manca oggi. La storia dell'emigrante Domenico insegna infatti che...
E’ davvero sconcertante il qualunquismo nel quale si è prodotto il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ieri ha concluso la sua visita in Argentina. Accompagnato dal ministro degli Interni Angelino Alfano e da numerose aziende italiane che faranno investimenti nel Paese sudamericano, non si è risparmiato nel solito pistolotto su quando i migranti eravamo noi. Gioco facile, in una terra che in 100 anni ha visto ospitare la bellezza di 26 milioni di italiani, fino a diventare una succursale del Bel Paese.
Mattarella ha dunque ricordato che il "laboratorio Argentina" è un esempio e ha concluso che «gli immigrati sono una risorsa, non è vero allora come adesso che il pauperismo italiano è figlio della pressione demografica». La frase è stata colta solo dai giornali italiani a differenza di quelli argentini i quali, più che sull’epopea romantica delle valige di cartone, hanno preferito concentrarsi concretamente sugli investimenti che Enel, Anas e compagnia bella faranno in quella lingua meravigliosa tra l’Atlantico e le Ande.
La frase serviva per chi in Italia non si è ancora rassegnato ad accettare le ondate di sbarchi che stanno riversando il continente africano sulle coste del sud Italia. Per dire che abbiamo bisogno di questi migranti, che però non scappano da guerre per la quasi totalità, proprio in chiave demografica. Belle parole, ma fuorvianti, per non dire antistoriche.
Paragonare l’emigrazione dall’Italia all’Argentina a quelle attuali che stiamo conoscendo con il dramma dei gommoni e il cinismo di scafisti e la filiera italica di approfittatori è favolistico e per certi versi irresponsabile perché alimenta il mito dell’emigrazione sempre buona, che appunto è un mito, sulla pelle di poveri disperati.
Il caso Argentina dimostra invece che l'emigrazione che funziona è quella delle culture integrabili e dei paesi ospitanti, ma richiedenti.
Non riconoscerlo significa strumentalizzare le une e le altre vicende. Si potrebbe rispondergli con i dati storico sociologici, con quelli macro politici, ma a volte, per confutare certe incursioni nella retorica basterebbe la sola esperienza, tangibile e inconfutabile, di qualunque immigrato approdato sulle rive del Rio de la Plata.
Al museo del mare di Genova si fanno scoperte sensazionali e per noi figli di emigranti commoventi. All’ultimo piano si racconta con mostre interattive l’epopea dei bastimenti. E si può accedere comodamente ad un data base che contiene i nomi di tutti gli emigranti imbarcati nel corso degli anni alla volta del nuovo mondo. Esperienza commovente, dicevamo.
Si scopre così che nel settembre del 1947 il signor Zambrano Domenico da Salerno e la sposa Carla da Legnano si imbarcarono con i loro due figli Raffaele e Ezia alla volta di Buenos Aires. C’è persino il nome dell’imbarcazione che non era un gommone guidato da scafisti senza scrupoli, ma una nave battente bandiera Argentina chiamata Motonave Mendoza, dal nome della capitale andina ai piedi dell’Anconcagua. La partenza della famiglia Zambrano era dunque stata registrata dalle autorità italiane, che pure venivano da una guerra spaventosa e potevano avere la scusa dell’assenza di burocrazia portuale, non servivano commissioni prefettizie costrette a fare le capriole per stanare i tanti “furbetti” distinguendoli dai pochi, veri, richiedenti asilo.
Il loro arrivo era quindi atteso, previsto e preparato dalle lettere strappalacrime di fratelli e cugini già là che in certo senso garantivano sulla buona riuscita di quella che era comunque l’avventura della vita, ma che valeva la pena di essere percorsa. Infatti, sbarcato prima in Brasile e poi in Argentina, il signor Domenico in Argentina non fece mai un solo giorno di disoccupazione. I figli crebbero lì, un altro vi nacque, la vita ricominciò lontano dal proprio Paese, ma certi che quello era un eldorado a portata di valigia.
E dopo essere passato anche dal Venezuela, a fine carriera il signor Domenico tornò in Italia per morirvi. Nè ricco, né povero. Ma consapevole di aver fatto la scelta giusta. Ed è qui, in Italia, che noi nipoti lo piangiamo dopo aver visto con ammirazione, rispetto e nostalgia quell’epopea che pur non avendola vissuta, ci rende parte di quel Paese senza mai averci abitato un solo giorno, ma solo visitato da turisti.
Tutto ciò era stato possibile perché c’erano le condizioni, un paese in crescita da riempire e ricco di materie prime. Un paese che fece sostanzialmente un discorso demografico di cultura. Importando lavoratori con figli a carico in grado di assimilarsi nel giro di due giorni alla cultura del posto.
Davvero crediamo che le condizioni di allora siano le stesse di oggi tanto da prenderle a modello? Se sì allora dovremmo ammettere che il teorema Biffi non era poi così tanto campato per aria: importare solo le culture assimilabili, che in Europa vuol dire sostanzialmente quelle che hanno nel cristianesimo la loro radice fondante (astenersi agit prop: intendiamo cristiani di cultura, non cattolici di fede, confondere le due cose è tipico delle teocrazie).
Anche l’Arabia Saudita è uno scatolone vuoto ricco di materia prima, ma chissà come mai i migranti musulmani là non ci vogliono andare. E poi noi accogliamo, ma guai se ci permettiamo di invitare i poveri migranti a messa: sarebbe un'intollerabile forma di imposizione.
Sicuramente questo ragionamento apparirà razzista, anche perché nel multiculturalismo attuale concedere il diritto di emigrare a culture solo cristiane verrebbe tacciato di colonialismo anti macroniano che non va certo per la maggiore. Però è ancora vero, lo dimostra il fatto che oggi, mentre continuano gli sbarchi non siamo in grado di assicurare un futuro dignitoso a nessuno di quei disperati attratti nella trappola degli scafisti che approdano qui, illusi di poter ricominciare una vita dignitosa e che faticano a integrarsi, anzi che di integrarsi non ne vogliono proprio sapere.
Continuare a dire venite che c’è posto è un atto di ingiustizia soprattutto nei loro confronti, prendere a modello esperienze passate e profondamente diverse è un falso storico. Si può far crescere la popolazione anche in altri modi, meno traumatici, e sicuramente più rispettosi della dignità di tutti. Ad esempio aiutando le famiglie nell’avventura della paternità. Ma questo è un discorso troppo complicato per la nostra classe politica.