Istruzione: inutile illudersi se manca l'educazione
Potrà cambiare in meglio qualcosa col nuovo ministro dell'Istruzione? Di sostanziale purtroppo no a causa di risorse economiche risicate, della burocrazia asfissiante e dello strapotere sindacale. E poi anche perché non si colpirebbe il vero problema: la scuola italiana non è in grado di educare. Il mondo degli adulti chiede un uomo sostanzialmente materialista ed edonista.
Nuovo governo, nuovo ministro dell’Istruzione. Giuseppe Valditara è professore ordinario di Diritto privato e pubblico romano presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino. Nel 1992, con il libro “Studi sul magister populi. Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani” ha vinto il Premio internazionale per la storia delle istituzioni politiche e giuridiche conferito dalla presidenza della Corte Costituzionale. È stato, inoltre, direttore scientifico della rivista giuridica “Studi giuridici europei” edita dall’Università Europea di Roma, nonché preside del corso di laurea in Giurisprudenza dello stesso ateneo. Senz’altro una persona con un apprezzabile spessore culturale.
Perché Giorgia Meloni lo ha voluto proprio al Ministero dell’Istruzione? Forse perché, oltre ad essere un accademico, ha anche delle esperienze pregresse in questo campo: nel 2010 ha collaborato alla stesura della riforma del sistema universitario voluta dall’allora ministra Gelmini e, dal 2018 al 2019, è stato capo dipartimento “Formazione superiore e ricerca” del Miur durante il mandato del ministro Marco Bussetti.
Ma potrà cambiare in meglio qualcosa, con la sua nomina, nel disastratissimo mondo della scuola italiana?
È facile prevedere che non ci saranno grandi cambiamenti sostanziali, sia perché le risorse economiche sono limitatissime (Legge di Bilancio, per la scuola solo le briciole. Meloni: “I pochi soldi serviranno per le bollette”), sia perché parliamo di un carrozzone reso complicatissimo e quasi inamovibile da una burocrazia asfissiante e dallo strapotere sindacale, là dove invece dovrebbero vigere ed essere facilitate la semplicità, la libertà e la chiarezza a favore dell’azione educativa e formativa.
Forse, saranno modificate per l’ennesima volta le linee guida dell’esame di maturità; magari si tenterà di dare un maggior risalto al fattore “merito”; potranno esserci nuove piccole concessioni alle scuole paritarie e qualche tentativo di sostenere maggiormente gli indirizzi professionalizzanti volti alla valorizzazione del Made in Italy, e magari altro ancora… Il tutto, però, condito e avversato dalle consuete e preconcette opposizioni studentesche e sindacali, che normalmente gridano al cambiamento affinché nulla cambi realmente.
Si tratterebbe comunque, anche nella migliore delle ipotesi, di modifiche marginali, che non andrebbero a colpire il vero problema: la scuola italiana non è in grado di educare. La sua struttura, così accentratrice e burocratizzata, è diseducativa; diseducative sono le parole d’ordine veicolate dal potere di turno col tentativo sistematico di indottrinamento dei giovani; diseducativo è l’orizzonte economico e tecnocratico entro cui si collocano, in generale, tutti i tentativi di riforma, presumendo che il valore e la dignità della persona consistano solo o prevalentemente nella sua capacità di inserirsi nel sistema produttivo; diseducativa, in sintesi, è la concezione della persona, del suo valore, del suo destino. E in questo orizzonte rischiano di essere trascinate e travolte anche le scuole paritarie, costrette ad adeguarsi ai diktat ministeriali per mantenere quei risicati finanziamenti coi quali tentano sempre più faticosamente di evitare la chiusura o di trasformarsi esclusivamente in scuole di élite.
Nonostante i proclami che talvolta appaiono sui giornali, relativamente all’importanza dell’istruzione e alla responsabilità sociale nei confronti delle giovani generazioni, in realtà la scuola interessa davvero a pochi. Poche settimane fa, in vista della formazione del nuovo governo, è stata pubblicata una graduatoria sulla percezione dell’importanza dei singoli ministeri (con portafoglio) da parte dei politici, e guarda caso quello dell’Istruzione si colloca all’ultimo posto. Eppure si tratta del fattore più vitale per lo sviluppo di qualsiasi società. Ma a chi interessa veramente educare? Di più: chi sa, oggi, che cosa significa educare?
Non è solo un problema di libertà di scelta educativa, che pure è assolutamente importante. La scuola attuale non è in grado di educare non tanto perché è statale, quanto perché la società intera, di cui lo Stato dovrebbe essere una espressione (e non viceversa…), ha smarrito l'orizzonte di senso entro il quale la persona è chiamata a crescere e rivelarsi con i suoi talenti fisici, intellettuali e soprattutto spirituali. E-ducere, cioè fare venire fuori, implica la consapevolezza che c'è in ciascuno qualcosa di grande e bello che deve manifestarsi, ed è innanzitutto l'anima, l'essenza più profonda della persona, sua fonte operativa e creativa. Esistono ancora, nel nostro paese, alcune “isole” in cui questo accade, ma sono sempre più rare, spesso inaccessibili a chi ha poche risorse economiche, e comunque sempre più marginali rispetto al sentire comune. Oggi infatti non ci si crede più, neanche in tante scuole non statali, e si punta sulla realizzazione della persona in funzione del successo nella vita, in una visione sostanzialmente materialista ed edonista. Perché questo è ciò che chiede il mondo degli adulti.
Il problema, dunque, non è tanto se la scuola è statale o paritaria, ma ciò che ne origina l'identità. In una società che avesse davvero a cuore la persona, il suo misterioso e profondo valore, la sua unicità, anche la scuola di Stato potrebbe educare, perché tutto “il villaggio” condividerebbe il medesimo orizzonte. Ma, ad oggi, questa è fantascienza.
Non facciamoci troppe illusioni: senza una radicale inversione di tendenza, che potrà essere favorita solo da un doloroso e generale processo di purificazione, poco o nulla potrà cambiare, anche col migliore possibile dei ministri.