LA SCENA ARABA
Islam, una "terza via" né laicista né fondamentalista
Il nazionalismo arabo è agli sgoccioli, ma per frenare lo jihadismo serve
una strategia chiara che non mortifichi
il senso religioso dei musulmani.
Cultura
26_02_2011
Di fronte allo sconvolgimento che ha colpito molti Paesi islamici dell'Africa e dell'Asia - iniziato in Tunisia e in Egitto, e che ora ha il suo epicentro in Libia - colpisce il disorientamento da parte degli specialisti internazionali che da anni studiano questi Paesi. I più onesti ammettono di non avere in nessun modo previsto quanto sta ora accadendo. Se avessero dovuto citare due esempi di regimi stabili nel mondo islamico, avrebbero menzionato la Libia e la Tunisia. Personalmente interrogati da chi scrive, sociologi di lungo corso del mondo arabo affermano di non essere in grado di tracciare una mappa delle forze che si oppongono a Gheddafi in Libia e che, se qualcuno afferma di essere capace di tracciarla, mente.
La micro-analisi è dunque ampiamente impossibile, e lo specialista corretto è quello che non finge di sapere quel che non sa. Tra l'altro, una tentazione ricorrente è quella di tradurre nei termini occidentali del partito politico quelle che sono, in Africa come in Asia, realtà etniche e tribali. In Libia - per quello che si capisce - le vere linee di divisione sono per tribù, ma la stessa nozione di tribù è sempre più controversa fra etnologi e sociologi.
Ancora più carente è la macro-analisi, e i media ci propongono esempi quotidiani di semplificazioni certamente false. Possiamo trascurare come mero folklore i tribuni giornalistici e televisivi italiani che adottano il semplice e provinciale criterio secondo cui i «cattivi» sono sempre gli «amici di Berlusconi». Ma anche fonti più autorevoli non sembrano meglio ispirate quando esaltano i «giovani democratici» che grazie a Facebook o a Twitter si organizzerebbero per cacciare i «vecchi dittatori». E più di un diplomatico ammette in conversazioni private che è sconsolante sentire questa retorica come unica analisi proposta da Barack Obama, a testimonianza di come l'attuale amministrazione statunitense, tutta ripiegata sui suoi problemi interni, abbia molte difficoltà a giocare un ruolo significativo in teatri internazionali di cui non sembra sempre apprezzare la complessità. Anche in assenza di micro-analisi complete e convincenti di alcuni scenari locali, la macro-analisi può tuttavia tentare d'identificare il senso di fondo di quanto sta succedendo. Il tentativo richiede però una pazienza ignota a molti giornalisti e politici. Come al solito, occorre infatti partire dalla storia.
Come ha ricordato Benedetto XVI nel suo viaggio in Africa nel 2008, l'Europa ha esportato in Africa e in Asia anzitutto la forza civilizzatrice del Vangelo e del cristianesimo, di cui non deve vergognarsi né chiedere scusa. Le scuse, però, sono necessarie perché nei bauli degli europei hanno cominciato ben presto a viaggiare anche l'Illuminismo, l'idea di un nazionalismo su base etnica, il socialismo e il comunismo. Questi prodotti di esportazione europea hanno fatto enormi danni in altri continenti.
Nei Paesi a maggioranza islamica le idee importate dall'Europa hanno incontrato una crisi dell'islam che, a partire dalla fine del XVII secolo, non stava più conquistando nuove terre ma vedeva vaste regioni musulmane cadere sotto il dominio delle potenze coloniali. A questa crisi teologicamente inspiegabile - perché il Corano e i detti del Profeta ai musulmani promettevano solo vittorie, non prevedevano sconfitte - l'islam reagì in due modi. Alcuni pensarono che i musulmani fossero sconfitti perché si erano troppo occidentalizzati e avevano voluto imitare l'Europa, abbandonando i severi costumi delle rozze ma invincibili prime generazioni del deserto. Nasce qui il movimento tradizionalista musulmano, che solo incontrando appunto idee e modelli politici occidentali si organizza politicamente nel XX secolo come fondamentalismo.
Altri, al contrario, pensarono che l'islam perdesse le battaglie non perché era troppo occidentalizzato, ma perché lo era troppo poco. Chi adottava questa analisi si diede a importare sempre di più nei Paesi islamici idee occidentali: prima l'Illuminismo e il laicismo, poi il socialismo, ben presto coniugati con forme di nazionalismo «inventate» a imitazione dell'Occidente. Lo scontro fra tradizionalismo - poi chiamato fondamentalismo - e nazionalismo, declinato in modi diversi a seconda dei Paesi, domina tutta la storia delle regioni a maggioranza islamica dal Settecento a oggi.
Quando dopo la Seconda guerra mondiale iniziò il processo di decolonizzazione, i Paesi occidentali e l'Unione Sovietica favorirono entrambi consapevolmente i nazionalisti - che erano laici e socialisti - rispetto ai fondamentalisti, considerati molto più lontani da qualunque modello occidentale, capitalista o comunista che fosse.
Dal momento che il personale politico nazionalista aveva tagliato in gran parte le radici con le sue tradizioni morali e religiose sostituendole con ideologie piuttosto posticce, non è sorprendente che fra i nazionalisti che andarono al potere abbondassero dittatori senza scrupoli corrotti e rapaci. Ma tutto l'Occidente - non solo l'Italia, e certamente non solo Berlusconi, dal momento che il processo risale almeno al 1948 - li favorì, pensando che fossero meno pericolosi dei fondamentalisti. La stessa diplomazia della Santa Sede, che pure conosceva bene tramite i vescovi locali le magagne dei regimi nazionalisti laici, si mosse sempre con grande cautela, perché sapeva che questi regimi garantivano alle minoranze cristiane non una vera libertà religiosa ma almeno la sopravvivenza fisica, assai più dubbia in caso di vittoria dei fondamentalisti.
Questa linea fu seguita per decenni sia dagli Stati Uniti e dall'Europa, sia dall'Unione Sovietica, e portò e mantenne al potere quasi ovunque un personale politico nazionalista di pessima qualità. Fecero parziale eccezione monarchie che avevano una loro legittimità tradizionale come quelle del Marocco e della Giordania. Altre due monarchie tradizionaliste nate su base tribale in Paesi che non erano mai stati colonie, l'Afghanistan e l'Arabia Saudita, cercarono di chiudersi a ogni influsso politico e ideologico occidentale. Di distruggere la monarchia afghana, per ragioni geopolitiche, s'incaricò direttamente l'Unione Sovietica, con conseguenze rovinose per gli afghani e in ultimo per gli stessi sovietici. I sauditi resistettero, perché avevano nel loro territorio sia i luoghi santi dell'islam sia le maggiori riserve petrolifere del pianeta.
Le cose cambiarono parzialmente dopo la vittoria dei fondamentalisti in Iran nel 1979 - a lungo considerata però solo un'anomalia sciita - e soprattutto dopo l'11 settembre 2001. George W. Bush si convinse che i regimi laici nazionalisti non funzionavano, perché non avevano impedito l'11 settembre, e si propose di sostituirli dove poteva non con i fondamentalisti ma con una «terza via», islamica e conservatrice ma nello stesso tempo ostile al terrorismo e non tecnicamente fondamentalista, i cui modelli erano le posizioni almeno di una parte dei vertici delle monarchie marocchina e giordana e della Turchia di Erdogan. La strategia non era folle, e oggi si assiste negli Stati Uniti alla sua vasta e paradossale rivalutazione a fronte degli svarioni di Obama. Tuttavia si arenò nei pantani delle guerre infinite afghana e irachena e nelle difficoltà d'identificare in molti Paesi chi potesse incarnare la «terza via». Non fu mai amata dall'Unione Europea, che preferiva i vecchi dittatori nazionalisti, né dal Partito Democratico negli Stati Uniti, che la liquidò appena tornato al potere con Obama, salvo riscoprirla tardivamente in questo giorni.
Il nucleo di verità della posizione di Bush era che i regimi nazionalisti erano comunque destinati a essere travolti per la loro natura impopolare e corrotta e per l'impetuoso risveglio religioso mondiale dell'islam. Era meglio governare la exit strategy da questi regimi che subirla.
Chi sosteneva che in Paesi come la Libia, la Tunisia, l'Egitto i regimi nazionalisti laici erano solidissimi, così che la «dottrina Bush» era pericolosa e prematura, aveva torto. Questi regimi impopolari sopravvivevano in periodi di relativa stabilità economica. La crisi economica internazionale ha reso ingestibili le proteste.
Questa analisi, beninteso, non risolve nessun problema. Sostenere che i regimi nazionalisti laici sono a fine corsa non significa saper prevedere che cosa verrà al loro posto. Ci sono almeno quattro scenari, e non è detto che lo stesso scenario si realizzerà in tutti i Paesi coinvolti Il primo scenario, da incubo specie per le minoranze cristiane, è una vittoria del fondamentalismo islamico nella sua forma più rigida. È un pericolo reale in Egitto, nonostante i sorrisi di qualche esponente del mondo fondamentalista di cui però è meglio non fidarsi. È uno scenario meno probabile in altri Paesi.
Il secondo scenario è quello gattopardesco dove tutto cambia perché tutto rimanga come prima. Deposto un generale nazionalista corrotto ne arriva un altro. Succederà senz'altro così da qualche parte, ma si tratterà solo di un modo per rimandare il problema.
Il terzo scenario - il sogno della Banca Mondiale e di altre istituzioni internazionali - è che arrivino al potere tecnocrati, possibilmente con un passato nelle Nazioni Unite, poco interessati ai valori tradizionali e molto ai valori di borsa. Figure come El Baradei in Egitto incarnano questi sogni, ma rimangono molti problemi quanto al consenso popolare che le presunte gioie della tecnocrazia riusciranno davvero ad assicurarsi nel medio e nel lungo periodo.
Il quarto scenario - il migliore - è che emergano personaggi con un forte radicamento nelle tradizioni locali, declinate però in modo conservatore e non fondamentalista. Era il cuore della «dottrina Bush», la quale però per essere ripresa magari in una versione corretta e migliorata da una parte presuppone che anche l'Europa accetti leader barbuti con mogli velate, purché siano lontani dal terrorismo e aperti ai diritti delle minoranze e al dialogo, dall'altra sconta il fatto che questi leader - se da qualche parte ci sono - in altri Paesi non si vedono neppure al più lontano orizzonte.
Nel frattempo, mentre questi quattro scenari si contrappongono, un'emigrazione di proporzioni bibliche rischia di dirigerei verso l'Europa, il che vuol dire anzitutto verso l'Italia. Il pensatore cattolico brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira (1908-1995) è principalmente noto per la sua analisi del processo di scristianizzazione dell'Occidente attraverso quattro Rivoluzioni che ne hanno disarticolato le strutture rispettivamente religiose, politiche, economiche e familiari. Pochi sanno che nel 1992 Corrêa de Oliveira accennò pure alla «possibile invasione dell’Europa Occidentale da parte di orde di affamati provenienti dall’Oriente e dal Maghreb» (in gran parte, «orde maomettane») nonché da Paesi ex-comunisti ridotti alla miseria: in questo senso, «i diversi tentativi di albanesi bisognosi di penetrare in Italia sarebbero stati come un primo saggio di questa nuova “invasione barbarica” in Europa».
Nel testo del pensatore brasiliano non vi era nessun disprezzo per gli immigrati in Europa, meritevoli piuttosto di compassione come «povera gente, piena di fame e vuota di idee». Ma — sempre a titolo d’ipotesi, non solo da verificare ma se possibile da scongiurare — lo scontro fra gli immigrati e un ambiente europeo «che, per certi aspetti, potrebbe essere qualificato come supercivilizzato e, per altri, come putrefatto» sarebbe potuto degenerare, ammoniva, in «un mondo di anarchia totale, di caos e di orrore, che non avremmo timore di qualificare come di V Rivoluzione». Come si vede — dieci anni prima dell’11 settembre 2001 — la curiosità intellettuale di Corrêa de Oliveira lo spingeva a formulare ipotesi che, rilette oggi, appaiono di singolare attualità.
Mentre il percorso delle prime quattro Rivoluzioni si svolge all’interno della storia dell’Occidente, l’ipotetica Quinta Rivoluzione rappresenta un’irruzione «dall’esterno» di forze di per sé estrinseche al processo storico occidentale, scatenate dalla stessa esportazione da parte dell'Occidente dei suoi vizi, che si sono combinate con l'islam in una miscela esplosiva e oggi tornano come una nemesi di fronte alla quale occorrerebbe pregare, meditare e prepararsi anziché disperdersi in speculazioni politiche miopi e risse da cortile.