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FALSI MITI

Ipazia, la verità e le bugie ideologiche

Un libro di Silvia Ronchey alimenta l'immagine della donna del V secolo come simbolo dell'intolleranza "cristiana". Ma non c'è nessuna prova delle responsabilità della Chiesa.

Cultura 05_02_2011
Ipazia
Ipazia. La vera storia è il titolo del libro di Silvia Ronchey, e la fascetta editoriale porta questa frase di Umberto Eco: «Una bizantinista, che sa lavorare sui documenti, racconta la vera storia di Ipazia – che non è meno affascinante delle leggende». Un programma impegnativo, dunque: ridare i contorni storici a una figura in cui storia e leggenda si mescolano in modo inestricabile.

Perché dell’Ipazia storica sappiamo poco, e tra la penuria di documenti storici e la mole di libri scritti su di lei la sproporzione è schiacciante. Tra l’Ipazia della storia e le sue proiezioni, quasi sempre avvelenate dalla volontà di usarla come simbolo (martire del libero pensiero, dell’intolleranza cristiana, del femminismo, della scienza, e via dicendo), sono le seconde a risultare vincenti. Nei buchi della storia si inserisce facilmente l’ideologia. La Realencyklopädie di Pauly-Wissowa, il monumentale repertorio in diverse decine di volumi che raccoglie tutto ciò che sappiamo del mondo antico, elenca in poche colonne le scarne notizie che ci restano, e nota che già nei testi più antichi si assiste al formarsi del «romanzo di Ipazia, che proliferò in modo lussureggiante».

Chi fu veramente Ipazia? Nessuna fonte risponde in modo soddisfacente alla domanda. Fu un personaggio di primo piano dell’élite culturale alessandrina del V secolo, uccisa durante un tumulto da un gruppo di cristiani fanatici sobillati da un certo Pietro il lettore. Le modalità e le circostanze dell’uccisione non sono ben chiarite dalle fonti antiche, che le espongono in modo incerto e discordante. Il mondo tardo-antico è un crogiolo di tensioni, e Alessandria, importante e agiato centro che ha alle spalle una prestigiosissima tradizione culturale, ma anche una tradizione di disordini e di violenze, è un microcosmo in cui i contrasti anziché attutirsi si dilatano. Vi è un contrasto sempre meno latente tra la Chiesa, naturalmente gelosa delle sue prerogative, e i rappresentanti del potere imperiale. Tra i cristiani vi sono drammatiche lacerazioni interne di eresie e sette.

Ai margini della chiesa vi sono frange di estremisti (laici e monaci), inclini a scendere in piazza e a menare le mani più che a pregare. Il paganesimo vive le sua stagione declinante, le scuole filosofiche pagane esprimono i loro ultimi pensatori. Vi sono gli ebrei (coi quali la tensione è altissima), vi sono gli gnostici, che organizzano parodie di culti cristiani nei giorni stessi delle festività cristiane, e forse vi sono anche i buddhisti. Sono accentuati i contrasti, ma esistono anche momenti di reciproca integrazione. Il pensiero cristiano apprezza e fa propri molti motivi del neoplatonismo, e vi sono persino episodi di sincretismo.

Nel 415, quando Ipazia viene uccisa, vescovo di Alessandria (una sede episcopale che aveva potuto sperimentare dal vivo la crudezza delle lotte con l’arianesimo, nelle quali il potere imperiale era intervenuto pesantemente, favorendo gli ariani e costringendo il vescovo Atanasio a un esilio temporaneo) è Cirillo, uomo energico e di straordinaria dottrina, autore di un numero impressionante di scritti (nessun altro autore della Grecità cristiana scrisse quanto lui), in prima linea nella difesa dell’ortodossia contro l’eresia monofisita, che sosteneva la presenza in Cristo di due nature distinte, umana e divina, e limitava la maternità di Maria alla sola natura umana. Allo zelo dottrinale non sempre corrispose un equilibrio nella guida della diocesi: gli viene rimproverata una serie di atti imprudenti ed eccessivi, e soprattutto il fatto di non avere preso sufficientemente le distanze dalle frange fanatiche.

Da questo a farne il mandante dell’uccisione di Ipazia ne corre. Il libro della Ronchey, arricchito da un apparato critico straordinariamente ampio (pp. 195-292), dà una panoramica delle fonti antiche e delle riletture moderne. Alle lacune della documentazione fatalmente lo storico è portato a sopperire con congetture e ipotesi, sulle quali purtroppo si costruiscono altre ipotesi. Questo vale, ad esempio, per la sopravvalutazione dei meriti filosofici di Ipazia, rispetto ai quali gli antichi sembrano piuttosto scettici («donna versata nella matematica, ma non meritevole del nome di filosofo» dice il pagano Damascio).

Sul suo pensiero non sappiamo nulla di nulla: da dove trae la Ronchey la certezza che Ipazia «cercava la verità, amava il dubbio, detestava la manipolazione» (p. 11)? Se il proposito è quello di ricostruirne la figura «in modo non settario. Di leggere la sua storia in maniera autenticamente laica e libera: per quanto possibile, vera» (p. 12), il risultato non sempre corrisponde all’intento. Un solo esempio. La Storia Ecclesiastica di Socrate Scolastico costituisce una fonte primaria per la ricostruzione degli avvenimenti. Secondo la Ronchey (p. 60) «anche per il cristiano Socrate fu una non piccola infamia questa compiuta da Cirillo e dalla chiesa di Alessandria». Ma il testo non dice così. Precisamente vi si legge: «Questo fatto produsse una non piccola infamia per Cirillo e la chiesa di Alessandria».

Quindi nessuna palese intenzione accusatoria nei confronti del vescovo: semplicemente la segnalazione che l’uccisione di Ipazia dilatò un’immagine negativa della chiesa di Alessandria e del suo vescovo. La Ronchey non ha esitazioni: «Cirillo fu colpevole della morte di Ipazia? Certo» (p. 133). Nemmeno il beneficio del dubbio! Come è poco garantista il pensiero laico, arroccato nelle sue certezze aprioristiche! Soprattutto, si richiederebbe allo storico moderno un minimo di prudenza, quando affronta fatti così delicati e dai contorni così incerti. A quanto pare, il fatto che l’insinuazione della responsabilità (o corresponsabilità) di Cirillo non compaia nelle fonti più antiche e si affacci solo più di un secolo dopo i fatti non sembra rilevante.

Forse le fonti successive si sono rifatte a tradizioni orali, ma nel contesto specifico dire “tradizionale orale” non è molto diverso dal dire “diceria popolare” e magari “calunnia”. La Ronchey ritiene sconcertante (p. 90) che nella voce Cirillo d’Alessandria dell’Enciclopedia Cattolica si legga che «non si può imputare a Cirillo questo assassinio». In realtà anche altri grandi repertori non cattolici arrivano alle stesse conclusioni, a partire dalla citata Pauly-Wissowa, che elenca le fonti e ne presenta con inappuntabile rigore critico il carattere poco attendibile, contraddittorio e incline all’amplificazione, e sottolinea l’inverosimiglianza di alcune affermazioni (p.es. la tesi di Damascio della gelosia di Cirillo per la cultura e il carisma di Ipazia).

E comunque, perché la Ronchey ha una fiducia così granitica delle sue convinzioni, tanto da ritenere che ogni interpretazione non collimante con la sua sia scandalosa? L’enfasi sul fatto che fu «il cattolicesimo ottocentesco a promuovere Cirillo dottore della Chiesa … nel 1882 … da Leone XIII, un papa ossessionato dal nuovo paganesimo rappresentato dalla massoneria» (p. 91) è fuori luogo. Il titolo di dottore della Chiesa fu conferito a Cirillo in grazia della sua dottrina sull’Incarnazione e sulla Maternità di Maria (sostenne la formula “Maria Madre di Dio” contro la formula nestoriana “Maria Madre di Cristo”), e non ha nessun riferimento con la sua attività politica. Per la Ronchey «il monofisita Cirillo sarà fatto santo. Il suo fantasma di eresiarca intoccabile sopravviverà implacabilmente» (p. 35).

Ma da dove ha ricavato l’idea che Cirillo sia monofisita, quando sia la chiesa cattolica (si veda la Catechesi di Benedetto XVI del 3 ottobre 2007) sia le chiese ortodossa, copta, armena hanno riconosciuto in lui un intransigente paladino dell’ortodossia, gli anglicani ne hanno fatto uno dei “Maestri della fede”, e la liturgia siriaca lo saluta come «torre di verità e interprete del Verbo di Dio fatto carne»? Se la Ronchey protesta più volte sulla pretesa della Chiesa di ingerirsi in ambiti che non le competono, a maggior ragione dovrebbe astenersi dall’intervenire su questioni ecclesiali: che autorità ha per stabilire chi è eretico e chi non lo è? La Ronchey parla di una «generale e millenaria omertà della Chiesa di Roma» e lamenta che «nonostante le scuse e le richieste di perdono dispensate un po’ a tutti tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo» (pp. 92-93) non vi sia mai stata una richiesta di perdono per Ipazia e una presa di distanza da Cirillo. Ma di che cosa dovrebbe chiedere perdono la Chiesa di Roma?

Se un gruppo di cristiani fanatici di Alessandria in un contesto di tensione estrema ha ucciso barbaramente una donna, si tratta sicuramente di un crimine deplorevole, ma che responsabilità può avere la Chiesa di Roma? Quanto al vescovo, posto che nessuna prova positiva si ha della sua corresponsabilità, e al massimo gli si possono imputare imprudenze nell’azione temporale, è compito della Chiesa dispensare giudizi su questioni di natura storica che tocca agli studiosi ricostruire e interpretare? Riassumendo, il libro presenta un esame molto ampio del materiale, ma, sotto il manto di una obiettività solo apparente, fornisce in realtà una lettura dei fatti viziata da un atteggiamento di fondo (ribadito con insistenza quasi ad ogni pagina) pregiudizialmente ostile alla realtà ecclesiale. Questo, ovviamente ne fa un libro di parte e ne sminuisce l’affidabilità.