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L'ANNIVERSARIO E IL RICORDO DI TOSATTI

Io, Superga e quei 30 metri che mi separarono da papà

"In una cassetta ho trovato gli occhiali che mio papà Renato indossava al momento della sciagura e la medaglietta che aveva al collo. Ancora mi accompagna e se oggi sono giornalista è perché mi ha trasmesso onestà, coraggio e indipendenza. L'ultima volta che ho pregato a Superga ho pensato all'effimero su cui viviamo: sarebbero bastati 30 metri più in alto, un nulla per te, Signore". Il ricordo d'eccezione del nostro Marco Tosatti, a 70 anni dallo schianto che annientò il Grande Torino, l'equipaggio e i giornalisti, tra cui suo padre.
-GRANDE E ETERNO TORO: PERCHE' CI COMMUOVE di Andrea Zambrano

Attualità 05_05_2019
I tifosi del Torino ieri sul terrapieno in cui si schiantò l'aereo a Superga

Mio padre si chiamava Renato Tosatti, era giornalista ed era sull’aereo che riportava il Grande Torino da Lisbona il pomeriggio del 4 maggio 1949. Non ho nessun ricordo diretto di lui; quando l’aereo si è schiantato contro il terrapieno della basilica avevo poco più di un anno e mezzo. La sua assenza e la sua immagine sono certamente le due cose più forti che hanno modellato la mia vita. E hanno contribuito molto a quello che faccio; e che di conseguenza riguarda – sono giornalista, da cinquant’anni – un pubblico più ampio di quello che circonda un cittadino, diciamo così, “privato”. Per questo scrivo questa breve testimonianza: perché chi mi legge abitualmente, sulla Nuova Bussola Quotidiana o altrove può avere interesse – o addirittura il diritto – di sapere con chi ha a che fare.

Proprio in queste settimane mi è toccato il compito tremendo di chiudere quella che potremmo chiamare la “casa di famiglia”; oltre a mia madre, scomparsa nel 1975, c’erano tre fratelli; chi scrive, Giorgio (nato nel 1937, e deceduto nel 2007) e Mirella, del ’31, la più grande dei tre, che se ne è andata l’anno scorso. Viveva sola a Genova, e con amore di archivista aveva tenuto tutto quello che riguardava la famiglia, fino ai biglietti di auguri natalizi. Non si è mai sposata, ed è stato necessario vuotare la sua casa per liberarla. Un tesoro di ricordi di cui ignoravo l’esistenza, e che solo ora ho cominciato a sondare.

In una cassetta ho trovato gli occhiali che mio papà indossava al momento della sciagura – era stata Mirella a fare il riconoscimento legale (mia madre era come impazzita dal dolore) e mi ha raccontato: “Sembrava che dormisse” – una medaglietta della Madonna, che aveva indosso, e il taccuino su cui aveva annotato i punti salienti dell’ultima partita, quella sciagurata amichevole con il Benfica.

Piano piano mi metterò a scavare in questa miniera, per cercare di ricostruire – lettere, appunti, ricordi – quella figura mancante. E sempre presente, come è stato sempre presente nella nostra esistenza quel dramma che ci ha accompagnato; e che ancora mi accompagna.

Leggevo oggi in un editoriale cose molte giuste sul significato che il Grande Torino aveva per un Paese distrutto, umiliato, devastato. E tutto questo aveva un significato preciso, personale. Perché dopo la guerra, la casa distrutta, la perdita del lavoro, la fame, per Renato e per Ada, sua moglie, sembrava che finalmente il futuro tornasse a sorridere. La Gazzetta del Popolo era uno dei, se non il più importante, quotidiano; papà lavorava, e poteva pensare a un futuro per noi. Quello schianto a Superga è stato una beffa, un ricacciarci a forza in maniera crudele nella disperazione e nell’angoscia. Anche economica, esistenziale. E ci sono voluti molti anni per ritrovare serenità e dignità.

Ma in tutto questo tempo il bambino che ora scrive queste righe è stato fatto crescere nella convinzione che non esista un mestiere più nobile, e utile, del giornalista. Che l’onestà e il coraggio e l’indipendenza siano i beni più preziosi, per chi voglia fare questa professione. Dalla miniera di ricordi che si è aperta qualche settimana fa sono usciti dei foglietti: erano i primi “giornali” fatti da un piccoletto allevato nel culto del mestiere di suo padre. E rafforzato in questa convinzione dall’esempio di suo fratello maggiore; protagonista di primo piano in un mondo, quello dell’informazione sportiva, in cui equilibrio, onestà e limpidezza non sempre sono così scontati. 

Ecco, queste sono le radici profonde del lavoro che svolgo, e in cui ancora credo, nonostante le mille delusioni e cadute. E la ragione per cui ancora, anche se gli anni avanzano, mi sembra giusto continuare. Non ho conosciuto mio padre, quello che mi hanno dato di lui era questo.

E la consapevolezza di quanto, veramente, siamo ridicolmente effimeri. L’ultima volta che sono andato a Superga, a pregare davanti al muraglione che ha schiantato l’aereo, mi sono sorpreso a pensare: Signore, bastavano trenta metri più in alto e sarebbero stati tutti salvi! Trenta metri, un nulla per te, Signore…