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L'INTERVISTA

"Io, Pupi Avati, vi racconto la famiglia"

Chiacchierata estiva tra la Nuova BQ e il regista. Parlando di famiglia e di fede. Il matrimonio? "Sono rimasto sull'impalcatura per 52 anni, so di cosa parlo". La crisi della famiglia? "Non ci ascoltiamo, abbiamo perso le liturgie delle relazioni umane. Chi ci salverà? "Il desiderio che la vita possa darci ancora tanto".  

di Andrea Zambrano

SUPPORTO ALLA FAMIGLIA: ITALIA FANALINO DI CODA di Bendetta Frigerio

Famiglia 18_07_2016
Pupi Avati

“Siamo assuefatti alla solitudine, la famiglia è l’unico rimedio”. Se la famiglia naturale fosse un’organizzazione Onu, Pupi Avati ne sarebbe l’ambasciatore. Ma dato che non lo è, dalla sua casa di Bologna assomiglia più ad un nonno sornione che ne ha viste tante e tante ne può mandare a quel paese. Come la pretesa di incasellare il mondo del cinema come irrimediabilmente senza valori. “Ha mai conosciuto il mondo dei bancari?”. Però, per essere sicuri, lui, dal mondo della celluloide, o meglio dai suoi riti e dai suoi risvolti sociali, si tiene ben alla larga. “Non vivo il mio mondo, deve essere stata la mia salvezza. Almeno quella mia e di mia moglie”.

78 anni, 46 passati dietro la macchina da presa a raccontare l’uomo in tutte le sue sfaccettature, oltre 50 i titoli all’attivo, Giuseppe Avati, detto Pupi è un italiano scomodo. Non piace al jet set, nonostante faccia il regista, mestiere ambito dalle starlette e sognato dagli intellettuali, ma piace agli italiani che vedono nei suoi film un riflesso di un’umanità concreta, vera e perduta, che poi è quella che viviamo. O che abbiamo vissuto e che vorremmo vivere: protettiva come i portici che costeggiano via Indipendenza nella sua Bologna, aspra e dolorosa come la salita che porta alla Madonna di San Luca. Ma comunque sanguigna come il ragù appena tolto dal fornello prima di inondare le tagliatelle.

Una moglie. E’ forse questo il titolo che manca alla sua sterminata bacheca. Perché Pupi Avati è stato terribilmente e testardamente monogamo. Nel suo significato etimologico stretto: “Uomo che resta fedele per tutta la vita a una sola donna e viceversa”. E nel suo “Un matrimonio” miniserie andata in onda sulla Rai nel 2014 lo racconta come se fosse il suo testamento. Pupi Avati è testimonial di un progetto scolastico presentato nei giorni scorsi dall’associazione “La famiglia non si tocca”, che consiste nella proiezione agli studenti del film del regista bolognese, a cui segue il più classico dei cineforum e si conclude con la testimonianza di una famiglia. Un progetto semplice, per raccontare una realtà semplice come la famiglia. Ma che difficilmente il Ministero dell’Istruzione terrà in conto dato che ormai il sacro fuoco dell’educazione gender rappresenta il must obbligatorio per essere à la page.

La Nuova BQ ha incontrato Avati a margine di questa presentazione, e con lui non ha saputo fare altro che parlare di famiglia. Anche perché forse è l’unico kolossal che andrebbe restaurato, nei colori e nell’audio.

Adesso la chiamano a parlare nelle scuole di famiglia. Come si trova in questo ruolo?

Bè, direi bene. Io sono una persona che ha esperienza matrimoniale, ho passato 52 anni di matrimonio e penso di avere una competenza in materia come pochi.

Di sicuro pochi registi…

La mia esperienza me la sono fatta salendo e scendendo dall’impalcatura del cantiere. Ho vissuto l’esperienza matrimoniale con tutte le sue difficoltà.

E Un matrimonio ne è il bignami?

Parlo della mia esperienza di vita e non tralascio nulla: litigi, cadute, ripensamenti. Per non parlare del rapporto con figli.

Che rapporto bisognerebbe avere con i figli?

Noi abbiamo il dovere di lasciare delle tracce di noi stessi nei figli.

E i figli?

I figli hanno un unico diritto.

Quale?

Un padre, una madre e dei fratelli. I fratelli sono delle garanzie. I figli devono sentirsi garantiti dai fratelli.

Qual è il film più famigliare?

Sicuramente Un matrimonio, perché è quello che include tutte le fasi. Non ho tralasciato niente, non ci sono reticenze. Ho parlato di adulterio, di rapporti non facili coi figli. Poi è evidente che in altri film ho raccontato la famiglia, alcune volte in modo però più consolatorio e meno onesto.

Ha letto l’ultima indagine Istat? Nel 2031 addio matrimoni. Sarà già molto andare a convivere…

Temo che ci sia molta verità, vedo la tentazione di disfarsi di questo istituto, che è l’istituto principe con il quale si richiama l’essere umano alla responsabilità. Oggi si cerca la solitudine, il solitario oggi rappresenta il massimo della tentazione perché abbiamo tutti l’illusione di vivere un’eterna giovinezza, provvediamo con artifizi chirurgici o chimici perché la stagione dell’adolescenza si protragga di stagione in stagione.

Nel frattempo si invecchia…

…ma la persona che ti è sempre stata vicina ti è d’ingombro. Ti ha regalato la vita e adesso non è più attraente per te. Tutto ciò è deleterio.

Se almeno ci fossero dei figli…siamo ancora abbondantemente sotto la soglia di sopravvivenza in quanto a numero figli per coppia.

Per forza. Tutti arrivano a fare un figlio dopo aver sistemato il mutuo, poi la macchina, poi il lavoro. Il bambino diventa un optional. Tutto ciò è una forma sotterranea di egoismo. Un egoismo diffuso, lo vedo perché sono anche nonno.

Soli, in ritardo e vecchi. Sta tracciando l’identikit dell’uomo moderno.

L’ha tracciato prima di me un grande Papa. Quando Benedetto XVI ha avuto questa geniale intuizione del relativismo. Ha stigmatizzato la cultura occidentale dove ognuno si fa la sua morale pret a porter, non c’è più nessuno che si confessa perché tutti trovano una legittimazione per autoassolversi. Tutto ciò fa sì che se in una famiglia, composta da padre, madre e figlio, si mettano al centro i propri egoismi, la famiglia è destinata a disgregarsi.

Cosa direbbero i suoi colleghi se la sentissero pontificare sui mali moderni che loro stessi mettono in scena quasi portandoli a modello?

Non frequento l’ambiente del cinema, lo vivo tenendomene alla larga. Diciamo che sono più compatito che apprezzato. Però non è vero che sia così malvagio. E’ un luogo comune che sia un coacervo di nequizie. Se vai nel mondo dei bancari è peggio. Tra i politici è peggio ancora, ovunque l’egoismo ti spinga a cogliere il massimo arraffando con voracità. Ma vedo che l’importante oggi è rassicurare. I nostri politici di mestiere fanno i rassicuratori.

Hanno appena falciato 84 persone su un lungomare. Se non ci rassicurano è finita.

Stamattina ho letto i tweet dei nostri politici. Incominciamo da Renzi. Non sanno fare altro che dire frasi insopportabili che non hanno senso, sono volte solo a infondere una fiducia finta. Penso che la dichiarazione post evento traumatico sia la parte più umiliante del mestiere di politico. Ma chi glielo fa fare? Avessero almeno la decenza di stare zitti per un po’. Invece dicono sempre le stesse cose: “Che noi dobbiamo continuare a vivere la nostra vita”, “Che noi siamo più forti del nemico”…

…Che nel frattempo non chiamano mai per nome.

Appunto.

Che rapporto ha con le fede?

La mia fede è condizionata dal dubbio, credo che sia la bellezza della fede. Ogni giorno devi perderla e ritrovarla. Se hai capito cos’è la fede, dopo un po’ lo fai di mestiere.

Si sente un testimone?

Sì, ma inutile. Nella mia ingenuità provocatoriamente vado a messa tutti i giorni a cercare Dio e a convincere Dio di esistere, lo ritengo necessario perché solo un Dio ci può salvare. Queste mie affermazioni sono guardate con bonario compatimento come si guarda uno scemo al quale vuoi bene: gli dai una pacca sulla spalla e poi continui con la tua vita.

Bè, però la più bella definizione della recitazione l’ho trovata da lei.

Ah sì, quale?

Recitare è ascoltare. Lo disse a Katia Ricciarelli indecisa se accettare la parte ne La seconda notte di nozze.

L’ascolto è la dinamica che muove una società. La nostra società non ascolta.

La famiglia è il luogo dell’ascolto?

Altroché. Abbiamo così tanti drammi famigliari perché nessuno ascolta più nessuno. Si parla tanto di femminicidio, ma non ci accorgiamo che spesso l’uomo sacrifica le persone alle quali è più legato perché è privato dell’ascolto. Se le consegnassi il mio cellulare troverebbe un centinaio di numeri. Almeno 65 sono numeri di persone disturbate di mente che mi telefonano.

Quindi?

Vogliono dirmi 4 cazzate, essere un po’ ascoltati, io li ascolto. Non è che la cosa contribuisca o possa sanare il loro problema, ma almeno non si sentono soli.

Speriamo di non essere tra questi.

Ma io lo faccio volentieri. L’uomo è così solo già dentro il contesto famigliare. Nessuno lo ascolta, conta solo come numero, non come individuo. Quante persone se fossero state ascoltate non avrebbero sgozzato la moglie?

Ha parlato di femminicidio. Anche lei cede alla neo lingua?

Ormai purtroppo entra nel nostro lessico. Ed è sbagliato. Il mondo è terribilmente peggiorato, la spietatezza la crudeltà, l’indifferenza sono sovrane, ma a colpirmi è la simultaneità con la quale tutto accade. Se adesso faccio zapping passo in un baleno dalla strage di Nizza a quei fessi che ti insegnano a come fare per truccarti. E stasera anche la strage di Nizza sarà cosa passata. E’ un caos nel quale non mi ci ritrovo.

Facciamo ordine.

Abbiamo bisogno di codici. La vita è tutto un obbedire a dei codici, a delle procedure che sono legate ad una sacralità che è la tua vicenda umana nel rapporto con gli altri.

Sta parlando di una liturgia?

In un certo senso la famiglia risponde a questa liturgia. Le procedure con le quali si intessono i rapporti con gli altri restituiscono valore a quello che fai. Prendi il fidanzamento.

Preso.

Il corteggiamento una volta aveva delle regole rituali, che preparavano ad un bene superiore. Oggi ci siamo giocati tutte queste relazioni umane per cui la nostra vita si risolve all’essenza: arrivi già a quello che è il risultato, ti guardi attorno e sei privo di desideri.

E che desideri ha Pupi Avati?

Questo: sono diventato vecchio continuando a sperare che la vita potesse darmi ancora tanto. 

di Andrea Zambrano