Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santo Stefano a cura di Ermes Dovico
INTERVISTA/IL MIRACOLO

«Io, malato di tumore, guarito da Sandra Sabattini»

Nel 2007 Stefano Vitali aveva 40 anni, una moglie e quattro figli. Poi il tumore al colon e la successiva guarigione, inspiegabile per la scienza. Il miracolo, dovuto all’intercessione di Sandra Sabattini, figlia spirituale di don Benzi e presto beata, è stato riconosciuto dalla Santa Sede. La Nuova Bussola ha intervistato Vitali.

Ecclesia 27_05_2020

Un miracolo può manifestarsi anche nell’incontro con un santo che ci cambia la vita. Quella sperimentata da Stefano Vitali è stata forse una conversione. Non certo dalla miscredenza alla fede ma da una vita bella a una vita piena. Nel 2007, Vitali ha 40 anni, moglie, quattro figli e decine di altri “figli”, ospiti della casa-famiglia allestita nella sua villetta a Rimini, dove è anche assessore comunale ai Servizi Sociali. Poi l’improvvisa malattia, un tumore al colon, e la successiva guarigione, inspiegabile per la scienza: il miracolo è stato riconosciuto lo scorso ottobre dalla Santa Sede, assieme all’intercessione della venerabile Sandra Sabattini (1961-1984), come Vitali figlia spirituale di don Oreste Benzi (1925-2007). La storia è stata raccontata nel libro autobiografico Vivo per miracolo. Così Sandra Sabattini mi ha guarito (Sempre Editore), firmato dallo stesso Stefano Vitali, oggi intervistato dalla Nuova Bussola Quotidiana.

Vitali, partiamo dalla figura chiave della sua vicenda: nel momento in cui don Benzi chiese l’intercessione di Sandra Sabattini per lei, cosa sapeva di questa ragazza?
Essendo stato a lungo segretario di don Oreste, ebbi modo di sentirne parlare spesso. Sapevo chi era, del suo impegno con la Comunità Papa Giovanni XXIII, della sua prematura morte a 22 anni, ma non molto di più. Quando fu chiesta la sua intercessione per la mia guarigione, Sandra Sabattini era già Serva di Dio da due anni, essendo iniziato il processo di beatificazione nel 2005.

Da come racconta nel libro, all’inizio lei era un po’ scettico verso questo miracolo…
Più che scettico, ero tornato alla vita di sempre, ero “solo” guarito e non mi ero posto il problema del come o del perché. Nel 2010, però, a tre anni dalla guarigione, sono successe una serie di cose: erano venute a mancare alcune persone di mia conoscenza, tra cui due ragazzi molto giovani. In più, i medici mi avevano detto che la mia guarigione era stata inspiegabile dal punto di vista scientifico. Tutti questi fatti mi hanno indotto a riflettere e ripercorrere quanto successo nei tre anni precedenti fino al giorno della mia preghiera con don Benzi.

Quand’è che ha iniziato a parlare pubblicamente del miracolo che la riguardava?
Il vescovo di Rimini, monsignor Francesco Lambiasi, mi ha raccomandato di mantenere il riserbo fino a un paio di anni fa. Oltretutto, fino al 2014, ero stato presidente della Provincia di Rimini, quindi c’era il rischio che la mia storia finisse strumentalizzata a scopi politici. Il miracolo è stato riconosciuto dalla Santa Sede nell’ottobre 2019 ma già l’anno prima Sandra era stata proclamata venerabile. È stato da quel momento che ho iniziato a parlarne pure io.

Quanto questa vicenda ha cambiato il suo rapporto con Dio?
Ovviamente moltissimo ma direi soprattutto negli ultimi due-tre anni. Mi è venuto in mente che il Vangelo non parla di come Lazzaro abbia vissuto personalmente il miracolo della sua resurrezione, cosa abbia provato… beh, io ho avuto la consapevolezza di questo dono e di sentirmi sempre in un certo senso inadeguato, di domandarmi perché fosse successo proprio a me, quando, intorno a me, vedo tante persone che, al contrario, non ce l’hanno fatta.

Quanto sono cambiati, invece, i suoi rapporti con gli altri, a partire dalla sua famiglia?
Quando hai 40 anni e tutto ti va bene, quando sei in ascesa, ti senti come Dio, credi di poter fare tutto. Nella malattia, mi sono accorto che tempo non ne avevo più, quindi la prima cosa che ho provato è stato un senso di colpa per il poco tempo che, fino ad allora, avevo dedicato a mia moglie, ai miei figli, ai miei affetti. Allora ho cercato di recuperare quel tempo e tutti gli istanti che non avevo goduto con loro. Quando il tempo non ce l’hai più, ti rendi conto di quanto siano importanti la famiglia e gli affetti. Sapendo che mi restavano sei mesi da vivere, capii che la mia missione era mostrare ai miei figli che potevo morire o, comunque, affrontare la malattia non da disperato ma col sorriso. La malattia cambia fortemente il modo con cui guardi gli altri: quanto tempo perdiamo nel guardare il negativo nelle persone. Ognuno ha i suoi lati “bianchi” e “neri”, in quel periodo avevo iniziato a vedere tutto “in bianco”: vorrei quasi tornare a quei momenti, per quanto mi ero sentito migliore e più pulito dentro.

Lei è sempre stata una persona intraprendente, piena di iniziative e progetti: potremmo dire che, con la malattia, ha imparato, oltre a programmare il futuro, a vivere di più nel presente?
Indubbiamente, fino a 40 anni avevo già vissuto una vita densissima di soddisfazioni e successi, ricoprendo, nel mio piccolo, anche ruoli di prestigio. Il bello della mia nuova vita è che ora non mi interessa più fare cose per poterne avere un tornaconto o essere in qualche modo gratificato ma le faccio semplicemente perché mi vengono chieste. Vivere la vita con questo spirito, dando la giusta dimensione a tutto, dona una pace incredibile. Grazie a questo cambiamento di prospettiva, gli ultimi cinque anni sono stati i più belli della mia vita da tutti i punti di vista. Ho imparato a vivere affidandomi. Una volta il vescovo mi ha detto: “Devi vivere come i servi alle nozze di Cana”. In effetti quel passo evangelico non è soltanto il primo miracolo di Gesù, è il trattato sull’obbedienza più bello che ci sia. Vivere la vita all’insegna dell’obbedienza non vuol dire essere passivi ma affidarsi: non sempre ci si riesce ma se cominci a vivere in questo modo le gratificazioni sono tante, la vita è bella, si vive più serenamente.

C’è un episodio miracoloso dei Vangeli in cui si identifica particolarmente?
Sì, mi identifico con il Vangelo dei dieci lebbrosi guariti: devo dire che nei primi tre-quattro anni dopo la malattia, io ero stato come i nove che non ringraziavano Gesù! Anche di fronte a un evento enorme come quello di una guarigione miracolosa, non è detto che chi riceve questo dono se ne renda subito conto. Tornare indietro per ringraziare e lodare Dio significa che un miracolo non è mai la fine di un percorso, anzi, ne è l’inizio, anche se non è per niente facile, perché ci si porta sempre dietro molti interrogativi.

Nel settembre 2007, don Oreste Benzi chiese alla Comunità di affidarla all’intercessione di Sandra Sabattini: meno di due mesi dopo anche lui è venuto a mancare. Adesso sente di avere due santi in Paradiso?
Quando morì don Oreste, venne meno il mio punto di riferimento e la mia guida. Inizialmente mi domandai: e adesso come faccio? Ho conosciuto davvero due figure di santi: con uno ho avuto il privilegio di lavorarci insieme, l’altra non l’ho conosciuta di persona ma entrambi hanno segnato la mia vita, quindi accolgo questa grazia con un senso di responsabilità. Se hanno fatto tutta questa fatica per permettermi di essere ancora qui, non posso sprecare il dono che mi è stato fatto.

Nel libro, lei racconta di quando ha lasciato la politica, mettendosi completamente a disposizione della Comunità Papa Giovanni XXIII: quanto è stato difficile accettare ruoli diversi dai precedenti?
Ognuno di noi si vede nel ruolo che ha. Per quello che mi riguarda, io ero stato presidente della Provincia e, prima ancora, segretario di don Oreste, quindi mi consideravo io stesso una persona abbastanza importante. Tornando a lavorare in Comunità, forse mi aspettavo qualcosa di ritagliato per le mie capacità e non l’avevo nascosto. Poi ho scoperto che quello che la nuova vita mi chiedeva era uscire dal mio ego o da quello che pensavo di valere o di essere. Quindi è stato un affidarmi, nonostante non avessi voglia di farlo, anzi, all’inizio ero teso e arrabbiato. Un vero spartiacque per me. Affidandomi, ho potuto vivere gli anni più belli, pieni e intensi della mia vita, tanto che mi hanno fatto capire, a poco a poco, il percorso che avrei dovuto fare per restituire quello che mi era stato donato.

Ora che la quarantena è finita e, tra un po’, potremo riprendere a viaggiare, ha nuovi progetti in mente o nuove mete da raggiungere?
Mi sento col cuore assieme alla gente che ho incontrato negli ultimi anni nelle missioni in Brasile, Cile, Tanzania, Zambia, Burundi, Ruanda, Bangladesh, Sri Lanka. Mi sto immedesimando nell’angoscia e nell’ansia di persone che vivono in Paesi dove i contagi da Covid-19 magari sono stati pochi ma dove il lockdown c’è stato ugualmente. L’altro giorno ho sentito un missionario in Brasile che piangeva non tanto per paura del Covid ma perché lì c’è la disperazione più totale. Concentrati come siamo sulla realtà italiana ed europea, non ci rendiamo conto che, a pochi chilometri da noi, c’è gente che soffre dieci volte di più: più che morti per Covid, questa pandemia rischia di fare morti per fame, perché sono state stravolte le regole del quotidiano. In molti Paesi, milioni di persone si alzano ogni mattina per cercare da mangiare: se non possono più andare in giro, cibo non ne trovano, perché vivono in Paesi dove lo stato sociale è assente. Non vedo l’ora di ripartire, anche semplicemente per riabbracciare queste persone.

Spero anche che questo libro possa essere un compagno di viaggio per chi patisce una malattia oncologica come la mia e dare strumenti su come affrontarla, perché non sia vissuta solo come disperazione ma anche come opportunità di vivere quel tempo come qualcosa che il Signore ci ha donato e non come qualcosa che in breve ci toglierà.