“Io e Giovanni Paolo II, che gioia la causa per la sua santità”
«Tra i testimoni c’erano sia laici che sacerdoti, tutti parlavano di Wojtyla come “il nostro Papa”. Colpisce che fossero persone di tutti i ceti sociali e di tutto il mondo, ma con un’opinione profondamente radicata della sua santità». La Bussola intervista monsignor Sławomir Oder, di ritorno in Polonia dopo 36 anni a Roma e noto postulatore della causa di canonizzazione di Giovanni Paolo II, di cui ieri cadeva il 16° anniversario della morte.
Ha trascorso 36 anni a Roma: qui ha studiato e si è formato come sacerdote, qui ha lavorato per quasi 30 anni nel Vicariato, per diverso tempo come presidente del Tribunale di Appello e gli ultimi otto anni come presidente del Tribunale Ordinario della Diocesi di Roma. Ma monsignor Sławomir Oder è conosciuto principalmente come postulatore nel processo di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II. Quest’anno, questo sacerdote polacco ha deciso di tornare nel suo Paese, nella sua diocesi di Toruń. Chi scrive ha incontrato mons. Oder dopo l’ultima Messa che ha celebrato nella chiesa romana di S. Giovanni Battista dei Fiorentini (nella foto, presso il reliquiario di Giovanni Paolo II).
Monsignor Oder, lei ha lavorato per molti anni nel Vicariato di Roma, ma è conosciuto principalmente come postulatore nel processo di beatificazione e canonizzazione di Giovanni Paolo II...
È vero. La Divina Provvidenza ha fatto in modo che non mi annoiassi. Nel 2005 sono stato nominato postulatore del processo di beatificazione di Papa Wojtyła. È stato un periodo di lavoro molto intenso, ma anche una grande avventura spirituale che ha riempito completamente la mia esistenza.
Nei suoi anni a Roma, ha potuto seguire “in diretta” l’attività di Giovanni Paolo II e, come postulatore, ha studiato anche testimonianze di persone che hanno avuto contatti con il Papa in diversi momenti della sua vita. Cosa l’ha colpita di più di queste testimonianze?
C’erano molti testimoni in questo processo, perché la figura del candidato agli altari era eccezionale e richiedeva analisi a più livelli. Tra i testimoni c’erano sia laici che sacerdoti, monsignori e cardinali, religiosi e religiose. Ci sono stati laici che hanno conosciuto il Santo Padre come capo di Stato, cioè presidenti, primi ministri, teste coronate, ma anche coloro che lo hanno aiutato nell’appartamento pontificio, il personale dei servizi tecnici e di sicurezza. Tutti dicevano con una sola voce che era “il nostro uomo”, “il nostro Papa”: questo era dovuto al fatto che Giovanni Paolo II aveva la capacità di entrare in una relazione individuale con ogni persona. Le persone sentivano la sua presenza nelle loro vite come qualcuno vicino. Nelle testimonianze colpiva anche la convinzione dei testimoni sulla sua santità, che nessuno metteva in dubbio. Questa santità era evidente nel modo in cui celebrava l’Eucaristia, nel suo zelo nell’annunciare il Vangelo, nel portare Cristo agli uomini di tutto il mondo. Era un uomo che trasudava una profondità di spirito che esprimeva il suo rapporto più intimo con Dio, ma allo stesso tempo sapeva entrare in un rapporto autentico e diretto con ogni essere umano. Questo era il denominatore comune delle varie testimonianze.
Quindi, durante il processo lei si è convinto dell’opinione generale sulla santità di Giovanni Paolo II?
Sì, ho viaggiato molto con i membri del tribunale e ho avuto l’opportunità di sperimentare un’opinione profondamente radicata della santità di Giovanni Paolo II. Ciò che colpisce è che queste opinioni provenivano da persone di tutti i ceti sociali e di tutto il mondo. Vorrei inoltre richiamare l’attenzione sul fatto che Benedetto XVI ha dato il suo consenso ad avviare il processo di beatificazione (nella foto, un momento della cerimonia di proclamazione a beato) senza attendere cinque anni dal momento della sua morte, come previsto dalle norme. La dispensa era dovuta al fatto che Giovanni Paolo II tornava alla casa del Padre in odore di santità, come testimonia anche il suo funerale, divenuto un evento mondiale. Milioni di persone vennero a Roma per rendergli omaggio convinte della sua santità. Quando durante il processo ho visitato Paesi non cristiani, dove il concetto di santità è sconosciuto, le persone si riferivano a Giovanni Paolo II come “uomo di Dio”, “uomo buono”. Ad esempio, in Egitto, dove andammo con il tribunale per raccogliere le testimonianze, la gente ricordava con grande emozione la persona e la visita del Papa in quel Paese. Dopo la sua morte, l’Egitto, un Paese musulmano, dichiarò lutto nazionale. Un'altra prova della fama di santità sono state le decine di migliaia di lettere che la postulazione ha ricevuto da tutto il mondo, così come le tante grazie - ricevute per sua intercessione - che ci sono state segnalate.
Anche dopo la canonizzazione di Giovanni Paolo II, lei ha continuato a viaggiare molto ed è stato testimone del culto mondiale di Wojtyła. Potrebbe dire qualcosa al riguardo?
Dopo la canonizzazione, l’interesse per la persona di San Giovanni Paolo e il suo culto non stanno diminuendo, al contrario. Il suo magistero e la sua eredità sono ancora vivi oggi. Ad esempio, non tutti sanno che sono state costituite diverse congregazioni religiose il cui carisma è quello di diffondere e coltivare l’eredità di Giovanni Paolo. Negli Stati Uniti è stata fondata la congregazione delle Suore del Sacro Cuore di Gesù e del Cuore di Maria, che lavorano tra i laici, organizzano simposi su Giovanni Paolo II e dei pellegrinaggi delle sue reliquie negli Usa e in Sud America. Sono impressionato dalle loro attività. Un’altra congregazione ispirata alla sua spiritualità è la piccola congregazione delle Apostole di S. Giovanni Paolo II, che opera in Birmania, proclamando il Vangelo della Misericordia tra i più poveri ed entrando in relazione con il mondo buddista. Di iniziative del genere ce ne sono tante.
La Chiesa presenta i santi e i beati come modelli per i fedeli, sia per laici che per i sacerdoti…
Giovanni Paolo II può essere un esempio di come vivere la propria vita in modo autentico, come un tempo di amore. All’inizio del suo pontificato, il Papa ha scritto parole che spiegavano cosa lo avesse portato ad essere eletto alla Sede di Pietro: “Debitor factus sum, “Sono diventato un debitore”. Stava saldando il suo debito d’amore. Ecco perché Giovanni Paolo II insegna a tutti, laici e sacerdoti, a vivere ogni momento della vita come pagamento di un debito d’amore.
Cosa insegna san Giovanni Paolo II, più nello specifico, ai sacerdoti?
Quello che più mi ha colpito del Papa è stata la sua esperienza del sacerdozio, che ha determinato quello che era. La sua forza derivava dall’essere un autentico sacerdote unito a Cristo. Ha vissuto la sua identità sacerdotale in ogni ruolo per il quale è stato chiamato: semplice sacerdote, cappellano accademico, professore universitario, vescovo, cardinale e infine papa. Amava il brano evangelico del dialogo di Pietro con il Risorto: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”. In questo dialogo, si è ritrovato come un discepolo. Ne è derivata la sua grande umiltà, che lo ha portato a incontrare Cristo ogni giorno in ginocchio, davanti al tabernacolo, ascoltando la parola di Dio, guardando l’esempio della Sua croce. Ecco perché l’icona del suo pontificato è la scena dell’ultimo Venerdì Santo, quando abbraccia la croce fissandola.
Cosa sta succedendo in Polonia? Perché san Giovanni Paolo II, il più grande polacco della storia, è oggi attaccato e denigrato in certi ambienti polacchi?
È una questione molto dolorosa per me. In generale, possiamo dire che stiamo assistendo a una rivoluzione neomarxista che si sta verificando non solo in Polonia ma in tutto il mondo. Tale rivoluzione colpisce il simbolo dei valori che il cristianesimo rappresenta e che recentemente sono identificati con la persona e l’insegnamento di Giovanni Paolo II. Non si tratta solo del Papa, ma del confronto generale di due visioni del mondo e dell’uomo: la visione di una “nuova civilizzazione” imposta dai circoli neomarxisti e liberali che vuole sostituire una civiltà ispirata ai valori cristiani, simboleggiata da Giovanni Paolo II.
Non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che la Chiesa è una realtà divino-umana e quindi segnata da peccati e debolezze umane. E sono proprio i peccati umani che diventano il fianco esposto del Corpo mistico di Cristo. Da qui il tentativo di attaccare la Chiesa e Giovanni Paolo II dalla prospettiva degli aspetti negativi della vita della Chiesa segnata dal peccato umano.
Durante l’ultima Messa celebrata da lei nella chiesa di San Giovanni Battista, ha parlato di sé come di un “prete romano”. Cosa significa?
Essere un “sacerdote romano” significa essere formati nello spirito della Chiesa universale. Ho avuto il grande privilegio di servire la Chiesa locale di Roma, guidata dal Vescovo di Roma, il Papa. È stato per me un grande onore e una gioia, anche perché il mio ruolo di postulatore del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II faceva parte di questo servizio.
Dopo 36 anni a Roma, lei torna in Polonia. Quali sono i suoi progetti?
Torno a Toruń e mi metto a disposizione del Vescovo che deciderà cosa farò, secondo le esigenze della Chiesa locale. E cercherò di servire la mia Chiesa di Toruń, alla quale mi sono sempre sentito legato, con lo stesso amore con cui ho servito la Chiesa romana.