Intervento militare. Per il Vaticano è l'extrema ratio
"L’intervento militare per noi deve essere solo l’extrema ratio” dichiara il cardinale Pietro Parolin, a nome del Vaticano. E' la posizione ufficiale della Chiesa di fronte alla crescente minaccia dello Stato Islamico, ora arrivato in Libia. Sono soprattutto i vescovi vittime degli islamisti, invece, a chiedere esplicitamente un intervento armato.
Anche ieri mattina, al termine dell’Udienza generale, il Papa ha rivolto un pensiero ai ventuno copti egiziani sgozzati dai miliziani dello Stato islamico in Libia: “Vorrei invitare ancora a pregare per i nostri fratelli egiziani che tre giorni fa sono stati uccisi in Libia per il solo fatto di essere cristiani. Il Signore li accolga nella sua casa e dia conforto alle loro famiglie e alle loro comunità. Preghiamo anche per la pace in Medio Oriente e nel Nord Africa, ricordando tutti i defunti, i feriti e i profughi. Possa la Comunità internazionale trovare soluzioni pacifiche alla difficile situazione in Libia”.
Ed è proprio la necessità da parte della Comunità internazionale di individuare una “soluzione pacifica” ciò su cui s’è soffermato il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, lunedì pomeriggio ai rappresentanti del governo italiano in occasione del ricevimento per l’anniversario della stipula dei Patti Lateranensi: “Non pensiamo assolutamente a un attacco unilaterale. E’ una cosa che non accadrà mai. Noi ci atteniamo alle decisioni dell’Onu e lavoriamo al fianco dell’inviato speciale Leon”, ha risposto il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni. Poco prima, stando alla ricostruzione di Repubblica, Parolin aveva confermato che i due vescovi cattolici presenti in Libia non avrebbero lasciato il paese, ribadendo che “l’intervento militare per noi deve essere solo l’extrema ratio”. Dichiarazioni assai simili a quelle più tardi riportate dalla Radio Vaticana: "Occorre intervenire presto, ma sotto l'ombrello Onu".
Tuttavia, come aveva già avuto modo di dire in più d’una occasione il Papa, “è lecito fermare l’aggressore ingiusto”. In ogni caso, aveva precisato Francesco durante la conferenza stampa dello scorso agosto a bordo dell’aereo che lo riportava in Italia dopo il viaggio in Corea, “non dico bombardare o fare la guerra. Dico: fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare dovranno essere valutati. Fermare l’aggressione ingiusta è lecito. Ma dobbiamo avere memoria. Quante volte, sotto questa scusa di fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e hanno fatto una guerra di conquista?”. Una posizione che era stata poi illustrata dal segretario di Stato, il cardinale Parolin, nell’intervento del 29 settembre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: “è sia lecito sia urgente arrestare l’aggressione attraverso l’azione multilaterale e un uso proporzionato della forza. Come soggetto rappresentante una comunità religiosa mondiale che abbraccia diverse nazioni, culture ed etnicità, la Santa Sede spera seriamente che la comunità internazionale si assuma la responsabilità riflettendo sui mezzi migliori per fermare ogni aggressione ed evitare il perpetrarsi di ingiustizie nuove e ancor più gravi”.
La spinta all’intervento armato arriva prevalentemente dai vescovi locali, dallo scorso anno alle prese con l'avanzata delle milizie dell'autoproclamato califfo al Baghdadi. Si prenda l’Iraq, dove il vescovo di Erbil, Bashar Warda, ha chiesto solo dieci giorni fa l’intervento delle truppe britanniche: “E’ difficile per un vescovo cattolico dire che si deve sostenere un’azione militare, ma bisogna farlo. Non c’è altra scelta, ora”. A giudizio del presule, “Ciò cui stiamo assistendo è ben peggiore rispetto a quanto accaduto in Afghanistan, con un numero maggiore di giovani che vanno a combattere per lo Stato islamico. L’azione militare è necessaria per cacciarli dai villaggi, così che la nostra gente e le altre minoranze possano farvi ritorno”.
Un appello all'intervento era giunto anche dal Sinodo straordinario dei vescovi caldei, riunito sotto la presidenza di mar Louis Raphael I Sako, patriarca di Babilonia dei caldei. In tale sede era stato chiesto che“tutte le forze nazionali e internazionali” possano presto unire “i loro intenti per liberare i territori occupati e mettere in atto le disposizioni necessarie per proteggere i cristiani e gli altri iracheni, affinché tutti ritornino alle proprie case e vivano nella sicurezza e con dignità”.