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MEDIO ORIENTE

Incendi in Israele. E la violenza cova sotto la cenere

Vasti incendi in tutta Israele. Almeno parte di questi sono di origine dolosa. Gli israeliani puntano il dito sui palestinesi, gli estremisti palestinesi rivendicano con orgoglio. La magistratura israeliana è però molto prudente. Ma è di ben altra natura il fuoco della violenza che cova sotto la cenere.

Esteri 26_11_2016
Incendio in Israele

Gli ultimi fronti del fuoco sono a Beit Meir e Mevo Horon, sulle colline intorno a Gerusalemme, poco lontano dall'autostrada numero 1 che collega Tel Aviv alla Città Santa. Fiamme intense, che per tutto ieri hanno impegnato le squadre dei vigili del fuoco. Giovedì era stata invece la giornata nera di Haifa, centocinquanta chilometri più a nord, con quasi 80 mila persone evacuate, più di un quarto degli abitanti della terza città di Israele. E poi tanti altri focolai più piccoli da nord a sud, dalla città costiera di Netanya ai villaggi arabi della Galilea.

Da quattro giorni ormai Israele fa i conti con un'emergenza incendi senza precedenti. A dire il vero - favoriti dalla lunga siccità e dal vento - gli incendi stanno divampando un po' in tutto il Medio Oriente: in Egitto, in Libano, persino a Gaza. Ma le proporzioni di quanto sta succedendo nello Stato ebraico e (soprattutto) il divampare di focolai sempre nuovi qualche sospetto lo desta. Sui social network si parla già apertamente di Fire Intifada, l'«intifada del fuoco». Lo fanno tanti israeliani che non nutrono dubbi sulla natura dolosa di questi roghi e su chi ne sia il responsabile. Ma lo confermano anche tanti estremisti palestinesi che - indipendentemente da quella che si stabilirà essere la natura degli incendi - ci hanno già messo il cappello sopra. Sostenengono che si tratti di una punizione divina contro il governo di Israele, reo di aver portato in discussione alla Knesset un disegno di legge contro l'«inquinamento acustico» provocato dal canto del muezzin, il richiamo islamico alla preghiera.

I più cauti - per il momento - sono gli inquirenti israeliani che in queste ore misurano attentamente le parole. Si vuole evitare il precedente del 2010, quando in occasione di un altro incendio di queste stesse proporzioni nella foresta di Carmel dilagarono le accuse contro il terrorismo arabo. Salvo poi accertare che il disastro, in realtà, era stato causato da uno studente che aveva abbandonato un narghilè in un bosco senza averlo spento in maniera adeguata. Fatta questa premessa, vi sono comunque sedici arabi fermati in queste ore, di cui si sta vagliando la posizione. Stando alle notizie riportate dai media israeliani la convinzione di chi indaga è che alcuni roghi siano anche stavolta dovuti a cause accidentali, ma altri no. In particolare vi sarebbero alcuni giovani palestinesi fermati nelle vicinanze di insediamenti della Cisgiordania con materiale incendiario. E un esponente dell'Islamic Movement in Israel - la formazione radicale presente tra gli arabi che vivono nel nord di Israele - arrestato con l'accusa di incitamento.

Probabilmente è esagerato parlare di un nuovo volto dell'intifada. Va detto, infatti, che gli incendi hanno colpito anche zone abitate da arabi e che la stessa Autorità nazionale palestinese ha inviato alcune squadre di vigili del fuoco per aiutare i colleghi israeliani a spegnere l'incendio di Haifa. Ma questo non esclude, evidentemente, che vi possano essere responsabilità di singoli gruppi. E contro di loro il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha già promesso il pugno di ferro, minacciando di revocare la cittadinanza agli autori dei roghi.

Se questo dovesse essere realmente l'esito delle indagini ne uscirebbe confermato il quadro che già l'intifada dei coltelli sta mostrando. Quello di una violenza meno organizzata ideologicamente, ma non per questo meno pericolosa. Una violenza che non si riconosce nei movimenti tradizionali e ricorre ad armi elementari (una tanica di benzina, un accendino, un coltello...), difficilissime dunque da individuare prima che vengano utilizzate. Una violenza di matrice nichilista, che come il fuoco distrugge tutto e tutti senza un vero e proprio obiettivo politico.

Ed è in un contesto del genere che - martedì - si apre la più volte rinviata settima Conferenza di Fatah, il partito che ha fatto la storia della Palestina. Un appuntamento nel quale un movimento agonizzante rischia di confermare ancora una volta come leader l'ottantunenne Abu Mazen per mancanza di alternative. E di ricominciare con il solito ritornello sulla riconciliazione con Hamas, nonostante la stessa formazione islamista sia uscita dalle «primavere arabe» con le ossa rotte. Bruciano i boschi, ma brucia anche molto altro sotto la cenere tra Israele e la Palestina. E di vigili del fuoco in grado di spegnere questo secondo genere di incendi se ne vedono ben pochi oggi all'orizzonte.