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IL LIBRO DI G. KUBY

“In politica da cristiani”: la fede cattolica che ruolo ha?

Gabriele Kuby, l’intellettuale convertitasi al cattolicesimo e impegnata nella difesa dei princìpi non negoziabili, pubblica “In politica da cristiani” (Ares). In diversi passaggi l’autrice scrive giustamente che la società ha bisogno di Dio e di verità e che la fede ha un significato pubblico, ma l’apporto dei cristiani in politica sembra limitato all’aspetto morale (un po’ come in Maritain). Non è chiaro, cioè, il significato preciso del ruolo pubblico della religione cattolica.

Cultura 26_03_2021

Il libriccino “In politica da cristiani. Criteri & princìpi” (Edizioni Ares, 2021, pp. 80) di Gabriele Kuby, intellettuale tedesca diventata famosa, dopo la sua conversione al cattolicesimo, per il suo impegno contro il gender e per i cosiddetti “princìpi non negoziabili”, quando ancora questa espressione veniva adoperata, contiene utili osservazioni ed esortazioni per impegnarsi in politica da cristiani.

L’espressione “dacristiani - che compare anche nel titolo - richiama alla mente la celebre distinzione di Jacques Maritain: per il filosofo agire da cristiani significava accettare la laicità della politica incentrata sulla persona e non più su Dio, mentre agire in quanto cristiani voleva dire far valere in pubblico la propria religione che, secondo Maritain, era cosa sbagliata perché riproduzione nostalgica della cristianità medievale che per lui era non solo sorpassata storicamente ma anche errata teologicamente. Agire da cristiani apriva così la strada alla secolarizzazione della politica che non si sarebbe poi più fermata, con la collaborazione dei cristiani all' espulsione di Dio dalla pubblica piazza.

A leggere questo breve libretto ci si può chiedere, quindi, se la Kuby intenda rieditare quella versione debole della presenza pubblica dei cristiani in politica. Oppure se abbia adoperato quell’espressione - da cristiani - incurante delle sue ascendenze maritainiane per dire altro. Auspica ella una presenza da cristiani o in quanto cristiani ?

In molte sue affermazioni la Kuby dà l’impressione di chiedere una presenza in quanto cristiani, ossia dentro il ruolo pubblico della Chiesa e della religione cattolica e non solo dei singoli fedeli. In molte occasioni dice che la società umana ha bisogno di Dio e di assolutezza della verità. Per esempio, parla di un ordine prioritario Dio-famiglia-lavoro: in questo caso pone quindi Dio al centro. Però l’ambito di questa centralità di Dio è detto essere quello personale del cristiano nell’organizzazione della propria vita quotidiana. Non si riferisce, l’autrice, alla centralità di Dio nella legittimazione dell’autorità politica o in un dovere della politica verso la religione cristiana (cattolica).

Quando ella si sofferma sull’impegno multiforme dei cristiani nella società politica, fa riferimento sì alle loro motivazioni religiose interiori, ma l’apporto sociale di questo impegno rimane solo morale: “Era ed è tuttora compito delle chiese sviluppare dal Vangelo le basi etiche dell’esistenza umana, annunciarle e ispirare gli uomini a volere il bene”. L’utilità della religione cattolica per la società politica non è, quindi, di fondamento (indiretto, naturalmente perché il Vangelo non è il Corano) della sua legittimità, ma di utilità nel sostenere e promuovere comportamenti etici, buoni e utili. La politica, se ne deduce, è considerata sì dipendente dalla morale ma non dalla religione, sicché questa, per rendersi utile alla comunità politica, deve scendere al livello etico, come agenzia di promozione dei valori della persona, il che andrebbe bene anche per Maritain. E ciò, come ho già notato, nonostante le motivazioni interiori del cattolico rimangano anche di tipo religioso e fondino la morale su Dio.

Per questo stesso motivo, i molti luoghi in cui la nostra autrice sostiene che la fede ha un significato pubblico e non solo privato o intimistico – osservazioni assolutamente condivisibili – non hanno adeguato sbocco, perché finisce che la fede, quando entra nella pubblica piazza, diventa morale. Oppure diventa testimonianza religiosa in pubblico ma non presenza pubblica della religione. In altre parole, non risulta chiaro il significato preciso del ruolo pubblico della religione cristiana.

La lettura dello scritto è utile per attingere alcune fonti bibliche e spirituali dell’impegno pubblico del cristiano, per ritrovare alcune osservazioni interessanti come l’accenno alle “comunità creative” di Benedetto XVI, per venire rafforzati dall’esempio dei cristiani nelle persecuzioni e per cogliere i tranelli culturali e linguistici delle ideologie di oggi. Però non scioglie il nodo: agire da cristiani o in quanto cristiani? Per sciogliere questo nodo serve stabilire se la ragione politica richieda per sua essenza, o meno, un rapporto strutturale con la fede religiosa (cristiana o meglio cattolica). Questo punto fondamentale dal libro non emerge, e non solo perché si tratta di un libriccino breve.

Ne consegue, a mio avviso, che esso può andare bene un po’ a tutti i cristiani che si troveranno accomunati nelle proposte della Kuby. Però oggi questo non corrisponde alla realtà, data la divisione tra i cattolici stessi su questi temi relativi alla loro presenza pubblica. Nel libro si dicono parole chiare sui nodi vivi di oggi: aborto, famiglia, eutanasia, gender, transumanesimo… E questo può essere utile per demarcare i due campi. In un momento storico tragicamente confuso come il presente, quando non pochi vescovi e sacerdoti accettano le relazioni omosessuali, è già qualcosa di discriminante. Tuttavia non si supera la presenza come animazione delle coscienze sui temi morali. Si dice certamente che la morale ha bisogno di Dio, un Dio che anima la coscienza del credente ma che non ha pretese per sé di riconoscimento pubblico nella politica, nelle leggi, nella scuola, nella cultura.