In “Nostalgia” una Napoli tra memoria e rinascita
Pellicola applauditissima a Cannes (ma niente premi), su “Nostalgia” sono piovuti apprezzamenti soprattutto per il sempre intenso Pierfrancesco Favino, magistrale interprete dei più autentici sentimenti: il legame profondo con le proprie radici e il desiderio di ricominciare una vita nuova
Nascere a Napoli, e in particolare nel difficile rione Sanità, ha lasciato in Felice Lasco, protagonista del commovente film Nostalgia di Mario Martone, un segno indelebile. Anche, o innanzitutto, perché ha dovuto abbandonare bruscamente la sua città da ragazzino, per trasferirsi all’estero e approdare infine in Egitto, senza più tornare nella sua città natale per quarant’anni. La travagliata storia di Felice-Favino, tratta dall’omonimo romanzo dello scrittore napoletano Ermanno Rea (1927-2016), ci immerge in una città fascinosa e piena di contrasti. La guardiamo con gli occhi di un uomo ormai maturo, che non sa neppure più parlare la lingua del suo quartiere, ma nemmeno scioltamente l’italiano (e qui Favino si immedesima in modo strepitoso in uno “straniero” mediorientale, che ormai pensa in arabo). Capiamo quasi subito che vuole darsi il tempo necessario per fare i conti con il suo tormentato passato, ripercorrendo le vie di quel basso che in fondo negli anni non è cambiato neanche tanto.
Sull’onda dei ricordi, il protagonista ritrova innanzitutto la mamma ormai anziana, che vive in un appartamentino degradato di cui il figlio, che non l’ha più vista da quando è partito quindicenne, si vergogna. Ma qui comincia il suo cambiamento interiore, che in qualche modo gli fa sperare nel perdono non tanto di sua madre (umile icona della naturale capacità di accettare le intemperie della vita, tipica delle donne del Sud), quanto di se stesso. Felice infatti al Cairo ha fatto fortuna, creando un’impresa di costruzioni, e ora potrà comprare una bella casa alla mamma, che aveva iniziato subito ad accudire, appena arrivato, quando lei ancora viveva nella sua misera abitazione. Qui c’è la scena forse più toccante del film, quando Felice, con rispettosa delicatezza, prende in braccio l’anziana donna (una splendida Aurora Quattrocchi) per lavarla e rivestirla con la dignità che merita. Ci sono sguardi indimenticabili di pudore e affetto tra madre e figlio, che esprimono tutta la dolcezza e la sofferenza di una riconciliazione, e che dona un significato vero alla “nostalgia”.
Nel cammino di riscoperta interiore di sé Felice incontra, oltre alla madre, un’altra figura fondamentale: don Luigi, prete battagliero e amico della gente (si ispira al reale don Antonio Loffredo, curato di Santa Maria della Sanità) che riesce a raccogliere attorno a sé i parrocchiani che non vogliono arrendersi alla corruzione e alla violenza della camorra. Riesce ad aprire nuove prospettive a tutti, è infaticabile e non ha paura. Così accoglie con rispetto e discrezione anche Felice che, avendo aderito alla fede islamica, al funerale della madre in chiesa non si fa nemmeno il segno della croce. Ma lo scugnizzo di un tempo sente di dover e poter fare qualcosa per “i suoi vicoli”, nei quali ritrova il profumo dell’infanzia. Profumo in realtà guastato in passato da una fedele ma pericolosa amicizia con Oreste, l’attuale spietato boss del quartiere, allora adolescente come lui, con cui ha condiviso il bene e il male. Il rimorso del passato lo tormenta, e solo don Luigi può capirlo, pur non potendogli regalare quel perdono che tanto desidererebbe: non può certo confessarsi, ora che è diventato musulmano, ma raccontare la sua storia sì.
Felice cerca la strada per conciliare il suo passato, che custodisce un doloroso segreto, con un futuro di gioia per il suo quartiere e per se stesso. È pronto a costruirsi una nuova identità, capace di accogliere le sue radici così vive e tormentate, ma ora aperte a un futuro generoso e attento agli altri. Le immagini di una Napoli che vince su certe sue bruttezze, inquadrano fiduciose il coraggio dei giovani che si raccolgono attorno a don Luigi per chiacchierare e ballare con allegria, o per suonare con impegno nell’orchestra in chiesa; oppure per riappropriarsi delle viscere della città, le catacombe, da mostrare ai turisti e agli stessi abitanti dei bassi, con orgoglio, consapevolezza e voglia di riscatto. Martone, nel film da lui diretto, così commovente e ricco di fascino, ci mostra come dal dolore, dalla perdita, dall’ingiustizia, possano nascere la bellezza e la felicità, che Felice (a dispetto del suo nome), non ha mai davvero pienamente conosciuto. Solo ora, smettendo finalmente di fuggire, può tornare al suo passato, per guardarlo con occhi diversi.
L’incanto struggente di Napoli conquista il cuore dello spettatore e lo trascina nel percorso di cambiamento del protagonista, che proprio nei luoghi dell’infanzia vuole ritrovare anche quell’amico fraterno, che ha compiuto scelte differenti dalle sue, inaccettabili, ma che lui non vuole in ogni caso tradire. Felice non può più abbandonare né quella travagliata città, né Oreste, con tutti i rischi che la sua decisione di rimanere comporta. Lo struggimento di questa Napoli ci avvicina al dramma della scelta del bene o del male che può diventare casuale, in quei vicoli dove sfrecciano in continuazione i motorini, verso avventure oscure e spesso colluse con la criminalità. Pierfrancesco Favino avrebbe meritato davvero un premio al recente Festival di Cannes, proprio per la sua capacità di mostrare il mistero della ricostruzione della propria identità, persino nella città più difficile, forse più contraddittoria e seducente del nostro Paese. Purtroppo i gusti del “cinematograficamente corretto” di oggi vanno in tutt’altra direzione, dove l’ideologia prevale sullo sguardo attento e rispettoso alla realtà, ma gli spettatori di Nostalgia sapranno certamente apprezzare ciò che la giuria di Cannes non ha saputo, o voluto riconoscere.