In morte di Franco Loi, poeta e uomo d’altri tempi
Uno degli ultimi poeti a fare del dialetto milanese la sua lingua madre, Franco Loi, morto a novant’anni il 4 gennaio, aveva titoli, pubblicazioni e amicizie a iosa, ma seppe rimanere umile. Nel rapporto con gli altri mostrava un’umanità - fatta di piccoli gesti - che oggi va dileguandosi. Una testimonianza personale.
Si è spento novantenne Franco Loi, il 4 gennaio, a Milano. E tutti quelli che, a San Silvestro, hanno stappato bottiglie di spumante salutando il 2020, anno nero per la gravità dei lutti e le difficoltà su tutti i fronti, si dovranno ricredere sulla clemenza del 2021. E non è un’uscita ardita, questa, anzi. Chi ha avuto l’onore di conoscere Franco Loi, grande poeta del nostro Novecento letterario, uno degli ultimi a fare del dialetto milanese la sua lingua madre, potrà gustare, nell’incipit dell’articolo, un po’ della sua sana ironia, del suo disincanto con cui, tuttavia, entrava in conflitto.
Il disincanto e il cinismo non erano la sua arma, erano anzi il nemico contro cui combatteva a suon di versi e di poesie. La poesia come ultima arma per parlare di sé senza la mediazione di alcun tipo di potere, senza prevaricazioni. La poesia come ultimo argine contro un consumismo smisurato e vorace. La poesia come ultima àncora che lascia la barca dell’umanità attaccata a un filo di speranza, una catena scossa da correnti via via più impetuose.
Stiamo parlando di un uomo che, giovane, mi ha iniziato alla poesia. Nel 2012 ebbi modo di conoscerlo in un reading di poesie organizzato in un locale vicino all’Università Cattolica, che avevo smesso di frequentare da poco più di un anno. Con alcuni amici si condivideva la passione per la scrittura in versi, si era fondato un collettivo, e si aveva preso a organizzare incontri in serate ricche di parole e di buon vino. Era un modo come un altro per salire su un palco e declamare le proprie poesie, facendo finta di essere grandi, scimmiottando ben più illustri poeti ma senza vanagloria, più con quella mimetica di chi impara, lentamente, un lavoro d’artigiano osservando e ripetendo i gesti più esperti di un mastro di bottega. A quella serata parteciparono alcune delle voci più giovani e più celebri della nuova poesia - Mandorlo, Ferrari, Salis, Babini -, il professore di Letteratura Moderna e Contemporanea alla vicina Cattolica Giuseppe Langella, e poeti con fama già affermata come Giancarlo Pontiggia e, appunto, Franco Loi.
Dopo la declamazione dei miei versi, mi si avvicinò dicendomi - sottovoce, come era suo marchio di fabbrica, senza etichette, senza prevaricazioni, ma con l’umiltà di chi ha imparato a stare saldo nella terra - che le mie poesie erano belle, che gli erano piaciute, di lasciargliene qualche copia per poi parlarne, in un altro momento, a casa sua. Così fu, e da quel bellissimo incontro ne nacque anche un’intervista-video per Tempi (vedi qui), ma ricordo bene il tè che mi offrì, la sua casa strapiena di libri, la sua intensa curiosità nel chiedere, a me, da dove venissero quei versi. Da me, appena venticinquenne, senza nessuna vera esperienza poetica. Quella volontà di scendere, nella mischia, ad armi pari, svestendosi dei suoi titoli, delle sue pubblicazioni, delle sue amicizie.
Titoli, pubblicazioni e amicizie di cui poteva vantarsi a iosa. Mi raccontò di come il suo primo libro di poesia, Strolegh - “streghe” in milanese - lo avesse fatto leggere, prima di tutti, a Vittorio Sereni, con cui lavorava in Mondadori. Vittorio Sereni, gigantesco poeta luinese, formatore di una linea poetica che sapesse far parlare il dettato montaliano con elementi intimi e ritrosi della sensibilità lombarda, editore che ideò e sponsorizzò la collana dei Meridiani, fiore all’occhiello dell’editrice segratese, dopo aver letto Strolegh cercò di convincere Loi a pubblicarlo “in casa”. Niente. Pur di non apparire un favorito, Loi fece pubblicare il suo testo con Einaudi. Tornando a quanto detto in precedenza, Loi ha generato tanto, ma rimanendo nell’ombra, preferendo il divano della sua casa ai grandi allori riservati a poeti che macinano libercoli pur di rimanere sulla cresta dell’onda.
Di Loi si può dire molto. Nasce a Genova, nel 1930, vive da subito a Milano, ne assorbe la cultura e la lingua. La sua è una vocazione tardiva: la sua consacrazione avviene solo nel ’75, con il primo vero libro, scritto in poco meno di un mese; la lotta politica comunista negli anni della gioventù, deluso poi dalle Brigate Rosse; la sua ricerca antica e semplice del divino attraverso la tradizione, i rapporti intimi, e la poesia stessa. Ma sono informazioni che si trovano un po’ ovunque, adesso, navigando in rete. Ciò che disturba, della sua morte, è sapere che gli esempi di umanità stanno andando dileguandosi, in un mondo che come il pane chiede persone che sappiano fare come Franco: invitarti a bere un tè, parlare di grandi cose con umiltà, aver fede, voler bene al prossimo.