In Mali partono i francesi e restano i jihadisti
Si conclude la missione a guida francese che per otto anni ha contrastato i terroristi, con scarso successo. Al comando in Mali e Burkina Faso giunte militari che la popolazione sostiene aspettandosi maggiore sicurezza rispetto ai governi democratici. Speranza vana, perché aumentano i civili uccisi. I governanti dirottano il malcontento accusando Parigi.
L’ultimo gruppo di soldati francesi dell’operazione Barkhane ha lasciato il Mali il 15 agosto alla volta del Niger dove già nei mesi precedenti si era trasferito il resto delle truppe. Termina così la missione militare, forte di 5.100 unità, che per otto anni, affiancando l’esercito maliano, ha contrastato e contenuto le attività terroristiche dei gruppi jihadisti affiliati ad al Qaeda e all’Isis che dal 2012 infestano estesi territori del paese. Prima, per due anni, la Francia aveva sostenuto il governo maliano con l’operazione Serval, alla quale hanno contribuito con mezzi e truppe 11 altri paesi. Dal 2013 inoltre è attiva in Mali la Minusma, una missione di peacekeeping delle Nazioni Unite, una delle più grandi, con oltre 17mila unità militari e civili.
Il 1° luglio ha lasciato il Mali anche la task force Takuba, guidata dalla Francia e composta da forze speciali dell’Unione Europea messe a disposizione da nove stati oltre alla Francia, incluso un contingente italiano. Era attiva dal 2019 con il compito di fornire assistenza e consulenza all’esercito maliano. Tutto quel dispiegamento di forze non è valso a sradicale il jihad in Mali. In nessun Paese africano missioni di peacekeeping e truppe militari straniere, anche con forze di grandi dimensioni, riescono a sconfiggere i gruppi armati – siano essi jihadisti, antigovernativi, a base etnica o criminali – sostituendosi agli eserciti governativi male equipaggiati, addestrati e comandati, indeboliti dalla corruzione che contamina anche gli alti gradi militari.
Sotto la minaccia jihadista, in Mali, oltre alle regioni dell’estremo nord, sono i territori confinanti con il Niger e il Burkina Faso. Sia in Mali che in Burkina Faso di recente i militari hanno preso il potere con un colpo di Stato: nel gennaio del 2022 in Burkina Faso e due volte, nell’agosto del 2020 e nel maggio del 2021, in Mali. In entrambi i Paesi migliaia di persone si sono riversate nelle vie di Ouagadougou, la capitale burkinabé, per manifestare il loro sostegno ai militari all’indomani del colpo di Stato e lo steso era successo a Bamako, la capitale maliana. La popolazione sperava che dei governi militari potessero garantire la sicurezza meglio che quelli eletti democraticamente. Ha dovuto ricredersi molto presto. In Mali e in Burkina Faso gli attacchi jihadisti contro i civili sono aumentati e anche le vittime civili, uccise dai terroristi e, per errore, incuria e rappresaglia, dai militari governativi. In un solo mese, lo scorso marzo, in Mali si è registrata la cifra record di 790 civili uccisi.
Per far fronte al crescente malcontento della popolazione, i leader dei due Stati sono ricorsi al consueto, collaudato espediente di dirottarne il risentimento, rivolgerlo altrove. Le due giunte militari hanno dato colpa della crescente insicurezza di cui i civili fanno le spese alle truppe straniere, soprattutto quelle francesi, accusandole di non essere state capaci di sconfiggere i gruppi jihadisti. All’inizio di agosto il Mali ha alzato il tiro. Quando il presidente francese Macron a fine luglio ha deplorato le stragi di civili compiute dai militari maliani – centinaia uccisi nella sola città di Moura lo scorso marzo – la giunta ha reagito negando i massacri e accusandolo di neo-colonialismo, paternalismo, odio etnico e «spregevole diffamazione».
Non contenti, adesso i militari accusano Parigi di destabilizzare l’Africa occidentale sostenendo i terroristi. Il 17 agosto il ministro degli esteri Abdoulaye Diop ha fatto pervenire al Consiglio di sicurezza dell’Onu una lettera nella quale accusa la Francia di aver violato lo spazio aereo del Mali più di 50 volte dall’inizio dell’anno con droni, elicotteri e jet militari per far pervenire ai gruppi jihadisti del Sahel informazioni logistiche, armi e munizioni. A luglio, inoltre, la giunta militare ha sospeso l’arrivo di nuovi caschi blu, ne ha arrestati 49 di nazionalità ivoriana sostenendo che si trattava di mercenari intenzionati a destabilizzare la transizione verso la democrazia e, alle sue proteste, ha dato al portavoce della Minusma, Olivier Dalgado, tre giorni per lasciare il paese. Su istigazione dei militari, cresce un movimento che chiede la fine della missione Onu, «incapace di proteggere la popolazione». Data la situazione, il 15 agosto l’Egitto ha deciso di ritirare i suoi mille caschi blu. Anche la Germania ha sospeso le operazioni dei suoi mille caschi blu e il Benin ha deciso di ritirare i propri soldati entro un anno.
Ci sono state manifestazioni popolari di protesta contro la Francia e l’Unione Europea in Mali e Burkina Faso. “Prenderemo il nostro destino nelle nostre mani – ha dichiarato in Burkina Faso durante una manifestazione Yéli Monique Kam, presidente dell’M30 Naaba Wogbo, un nuovo movimento che chiede la fine della cooperazione con la Francia – cosi saremo liberi di scegliere i nostri partner e le soluzioni capaci di mettere fine al conflitto”.
In Mali il nuovo partner è la Russia, che rifornisce di materiale militare la giunta, inseme ai mercenari, anch’essi russi, del gruppo Wagner. Ma, con la partenza delle truppe europee e la crisi con la Minusma, la situazione si è ulteriormente aggravata. A metà luglio dei jihadisti sono riusciti a compiere un attentato persino a poche decine di chilometri dalla capitale Bamako, in una regione quasi mai colpita dai terroristi. Il 7 agosto hanno attaccato la città di Tessit uccidendo 42 militari e ferendone 22. Si è trattato di una delle più gravi stragi subite dal paese da quando è sotto minaccia jihadista.