In Libia anche il premier è in ostaggio
Alì Zeidan, premier libico, è stato rapito e poi rilasciato da una milizia islamica di Tripoli. Il fattaccio avviene dopo il rapimento americano del terrorista Anas al-Liby e le due vicende sono probabilmente l'una la rappresaglia dell'altra. A due anni dalla morte di Gheddafi, tutta la Libia è ormai ostaggio di milizie che controllano petrolio, traffico d'armi e tratta dei migranti.
La ricorrenza dei due anni dalla morte di Muammar Gheddafi rischia di venir celebrata all’insegna del rimpianto. Non solo in Libia dove dopo il colonnello sono arrivati caos, qaedisti e scontri tra bande tribali, ma anche in Europa dove il dittatore era considerato un partner difficile ma certo più affidabile del governo fantozziano che oggi siede molto instabilmente a Tripoli.
La Libia è un Paese in ostaggio delle milizie, il cui petrolio è ostaggio dell’ex galeotto Ibrahim al-Jathran a capo di 17 mila banditi, in cui milioni di abitanti sono ostaggio delle milizie e decine di migliaia di africani sono ostaggio dei trafficanti di esseri umani in attesa di venire mandati allo sbaraglio verso Lampedusa. Persino il premier libico, Alì Zeidan, è in ostaggio o almeno lo è stato ieri per sei ore. Sequestrato nell’albergo di Tripoli in cui risiede senza che le sue guardie del corpo abbiano mosso un dito per impedirlo e tenuto “prigioniero” per sei ore da una milizia islamica che successivamente lo ha rilasciato senza che siano state fornite spiegazioni. O almeno spiegazioni credibili dal momento che Zeidan si è limitato ad attribuire l’accaduto a “un gioco politico interno” cercando di tranquillizzare le cancellerie occidentali e rassicurare gli stranieri che in Libia “non rappresentano un bersaglio”.
Considerati gli attacchi e gli attentati che negli ultimi dodici mesi hanno colpito diplomatici stranieri, personalità politiche e funzionari di esercito e polizia le parole di Zeidan non hanno certo rassicurato nessuno. Se sulla carta dalle due sponde dell’Atlantico sono giunti a Tripoli attestati di stima e sostegno, in realtà statunitensi, britannici, francesi e italiani si preparano al peggio. Cioè a un tracollo totale dello pseudo governo libico che i servizi segreti sembrano considerare ormai inevitabile e imminente. I marines sono tornati in forze nella base siciliana di Sigonella con i convertiplani (volano orizzontalmente come aerei ma atterrano verticalmente come elicotteri) MV-22 e i rifornitori KC-130, strumenti indispensabili per portare via in fretta i diplomatici da Tripoli. Secondo indiscrezioni anche le forze speciali italiane, francesi e inglesi sono pronte a fare altrettanto.
Il generale Adriano Santini, direttore dell’intelligence (Aise) ha riferito ieri al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica del rischio che saltino gli equilibri tribali, possibilità ingigantita dal crollo dei proventi dell’export di petrolio determinato dal blocco dei pozzi ordito dai miliziani di al-Jathran. Che il tracollo sia nell’aria lo indica anche il fatto che è saltato l’ambizioso piano di addestramento di 20 mila reclute libiche curato da statunitensi, francesi, britannici e italiani. È stato infatti sospeso a tempo indefinito l’avvio del programma di formazione che doveva prendere il via questa settimana a Tripoli ad opera degli istruttori militari italiani per poi completarsi a Cassino dove sarebbero dovute arrivare 400 reclute libiche.
In Libia intanto sono in allarme anche le milizie islamiste, le più forti del Paese, in parte vicine ai Fratelli Musulmani (che hanno assunto ormai il controllo del Parlamento cooptando deputati di altri gruppi) e in parte legate ai salafiti finanziati dall’Arabia Saudita, allarmate dal blitz delle forze speciali statunitensi che il 5 ottobre hanno catturato in pieno centro di Tripoli l’esponente qaedista Anas al-Liby. Un evento che probabilmente è legato al sequestro-lampo di Zeidan forse provocato dalla fuga di notizie avvenuta a Washington dove avevano negato di aver informato le autorità di Tripoli dell’incursione della Delta Force per la cattura di al-Liby.
Zeidan, forse recitando un copione, aveva accontentato gli islamisti lanciando anatemi contro gli Stati Uniti e minacciando dure reazioni diplomatiche. La cosa sarebbe probabilmente finita lì se il New York Times, citando fonti ufficiali, non avesse fatto sapere al mondo che Zeidan era stato informato dell’imminente raid delle teste di cuoio. Proprio quello che ci voleva per far saltare ogni equilibrio e scaraventare definitivamente la Libia nel burrine dell’anarchia. Il dubbio, per chi vuole averlo, è se interpretare tutto questo come un nuovo errore di improvvisazione dell’amministrazione Obama o l’ennesimo tassello della destabilizzazione sistematica perpetrata da Washington nella regione mediterranea e mediorientale.
Difficile dire se i sequestratori volessero garanzie dal premier contro nuove incursioni americane, pretendessero contratti e vantaggi economici per le loro milizie o se invece abbiano ricattato Zeidan per imporre una virata islamista e anti-occidentale al governo. La risposta a questi dubbi verrà solo dal tempo ma è ormai certo che la già ridotta affidabilità di Zeidan agli occhi dell’Occidente oggi è definitivamente scomparsa. E con essa la possibilità di stabilizzare la Libia alla deriva tra guerra civile, anarchia e secessione delle sue regioni (Fezzan, Cirenaica e Tripolitania) ormai diventati “stati-canaglia” in mano a terroristi, banditi e trafficanti.