In Europa i vincitori sono gli sconfitti, Meloni resta al palo
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Scholz e Macron usciti con le ossa rotte dalle urne per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo ottengono quello che speravano: la riconferma della von der Leyen alla guida della Commissione, che la Meloni deve accettare a malincuore. A che serve votare se poi a decidere sono sempre gli stessi?
Ma a che serve andare a votare se poi a decidere sono sempre gli stessi e la volontà popolare rimane solo un’indicazione generica che si può sempre disattendere? Se lo chiedono in tanti, in Italia e in Europa, dopo l’ufficializzazione dell’accordo sulle nomine per la governance del Vecchio Continente.
Per settimane si è celebrato il trionfo delle destre e, nel nostro Paese, di Giorgia Meloni, che sembrava destinata a “dare le carte”, cioè a guidare le negoziazioni per il rinnovo degli incarichi di vertice in Ue. Invece, nella migliore delle ipotesi, il premier italiano avrà un contentino, una vicepresidenza della commissione o un commissario più o meno importante, ma nulla più. Per uno di questi due incarichi si fa il nome di Raffaele Fitto.
E Scholz e Macron, che erano usciti con le ossa rotte dalle urne per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo? Loro ottengono quello che speravano: la riconferma di Ursula von der Leyen alla guida della commissione di Bruxelles, che ora la Giorgia italiana deve accettare a malincuore, visto che aveva pregustato di poter dare una svolta al governo dell’Europa e, conseguentemente, all’autorevolezza italiana in Europa.
Rimane, invece, una gregaria. Infatti, sei leader di altrettanti Paesi dell'Unione europea hanno trovato (senza di lei) l'accordo sulle nomine per i top jobs, le principali cariche del blocco: la tedesca Ursula von der Leyen alla Commissione per un secondo mandato, il portoghese Antonio Costa al Consiglio, e l'estone Kaja Kallas per l'Alto rappresentante della politica estera. Lo riferiscono diverse fonti vicine ai negoziati. L'accordo dovrà essere formalizzato al summit di Bruxelles previsto per oggi e domani.
Sergio Mattarella, che non poteva rimanere silente, ha pronunciato una dichiarazione di circostanza in difesa del governo italiano: «Non si può prescindere dall'Italia». Ma si tratta di una frase priva di effetto, anche perché la decisione è stata presa e verrà ratificata oggi.
Al tavolo ristretto dei sei che hanno siglato l’accordo erano presenti, tra gli altri, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, gli sconfitti del voto europeo, che però continuano a contare più della Meloni. La premier italiana è stata tenuta fuori dai negoziati in quanto il suo partito europeo di riferimento, l'Ecr, non fa parte della maggioranza che dovrebbe reggere le redini dell'Ue anche per i prossimi 5 anni. La maggioranza è infatti composta dai popolari del Ppe, dai socialisti del Pse e dai liberali di Renew. Insieme a Macron (liberali) e Scholz (socialisti) c'erano anche il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis e il premier polacco Donald Tusk (Ppe), il leader spagnolo Pedro Sanchez (Pse) e quello olandese Mark Rutte (Renew).
Il tavolo ristretto si era già riunito lunedì scorso in occasione del primo vertice Ue incentrato sulle nomine. Anche in quell'occasione Meloni restò fuori dalla stanza su richiesta specifica di socialisti e liberali, che ai popolari hanno posto come condizione per la riconferma di von der Leyen lo stop a qualsiasi tipo di alleanza con l'Ecr. Sarà pure stato uno sgarbo politico ma tant’è: l’Italia è rimasta fuori dalla “stanza dei bottoni” e subirà questo accordo per i prossimi 5 anni. Ma la conventio ad excludendum non è nei confronti dell’Italia, bensì nei confronti della destra, quindi dell’Ecr, cui aderisce la Meloni.
Infatti la von der Leyen vuole trattare con Meloni in quanto capo del governo italiano e non come leader di Ecr, dimostrando di non voler minimamente condividere la sua scelta di collocazione ideologica in Europa.
La morale di questa triste storia è duplice. Anzitutto l’Italia è stata penalizzata perché in fondo in fondo la Meloni non è amata, ma solo tollerata a Bruxelles. Esattamente come accadde per Giuseppe Conte, il cui peso diplomatico in sede Ue venne sopravvalutato ai tempi del Covid e delle prime decisioni sul Pnrr, anche per il premier italiano si può parlare di autorevolezza sopravvalutata.
Il secondo insegnamento è che l’asse franco-tedesco non è morto, anzi si conferma dominante in Ue, con tutto ciò che ne consegue in termini di ridimensionamento del potere italiano.
Gli elettori meloniani restano delusi, perché Giorgia non è riuscita a imporsi. D’altronde il premier è a un bivio: o si fa buggerare dai suoi rivali in Europa e accetta questo quadro in cui è assolutamente marginale, o fa buon viso a cattivo gioco e tradisce i suoi elettori in Italia alleandosi con quelli che in campagna elettorale erano i suoi nemici, cioè i socialisti e le forze di sinistra. In ogni caso ne esce male e dimostra di aver fatto male i calcoli.