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LIBERTÀ RELIGIOSA/13

In Afghanistan chi si converte rischia la vita

I talebani furono un problema,
i neotalebani sono un guaio.
La shari'a e la legge per i casi
di presunta blasfemia e apostasia.

Cultura 11_06_2011
Esuli afghani cristiani «Abbiamo ucciso nove missionari cristiani. Portavano Bibbie. Ed erano spie». Un portavoce dei talebani, nel maggio del 2010, annuncia con queste parole la strage avvenuta nella provincia del  Nouristan, nel nord dell'Afghanistan, di nove persone. Il gruppo era formato da medici volontari, per lo più oculisti, impegnati per aiutare l'ospedale oftalmico Noor di Kabul, gestito dall'organizzazioen non goevrnativa cristiana International Assistance Mission.

L’Afghanistan non è nuovo a episodi di questo genere. Cinque uomini afgani che avevano abbracciato il cristianesimo furono assassinati in diverse circostanze alla fine di giugno del 2006. Il primo cadavere fu rinvenuto il primo luglio 2006. Con una telefonata all’Agenzia Reuters, un portavoce dei talebani, Adbul Latif Hakimi, annunciò la morte dell’ex Mullah Assad Ullah, risalente al giorno prima, nella provincia di Ghazni, roccaforte dei Talebani. L’ex mullah aveva ricevuto una copia del Nuovo Testamento cinque anni prima, ancora in pieno regime talebano ed era stato segretamente battezzato. Aveva 45 anni e lasciò la moglie e quattro figlie, fra i 7 e i 14 anni.

Il 7 agosto 2006, l’associazione evangelica Porte Aperte ebbe conferma di un altro assassinio: un afgano convertito al cristianesimo. Era sposato e senza figli. Durante il mese di luglio, altri tre afgani erano stati accoltellati o picchiati a morte in diverse circostanze. Ognuno di loro lasciò la moglie e diversi figli. I tre uomini erano stati accusati dai loro aggressori di leggere la Bibbia, di pregare nel nome di Gesù o di frequentare altri afgani noti per avere abbracciato il cristianesimo.
Amnesty International, nel suo rapporto sui diritti umani del 2010, evidenzia che le vittime civili causate dei talebani e da altri gruppi armati sono aumentate.

Secondo l'organizzazioen non governativa afgana Safety Of?ce, tra gennaio e settembre, gruppi armati hanno sferrato oltre 7400 attacchi in tutto il Paese. Le Nazioni Unite hanno registrato più di 2400 vittime tra i civili, circa due terzi dei quali sono state uccise dai talebani.

Per Amnesty International, il popolo afgano subisce gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario, da quando - oltre sette anni fa - gli Usa e i loro alleati hanno destituito il regime dei talebani. L'accesso alle cure sanitarie, all'istruzione e agli aiuti umanitari è andato peggiorando, in particolare nel sud e nel sud-est del paese, a causa dell'escalation del con?itto armato tra le forze afgane e internazionali e i talebani e altri gruppi armati. Le violazioni legate al con?itto sono aumentate nel nord e nell'ovest dell'Afghanistan, zone considerate in precedenza relativamente sicure.

I talebani e altri gruppi antigovernativi hanno incrementato gli attacchi nei confronti dei civili, prendendo di mira anche scuole e ambulatori medici, in tutto il Paese. Le accuse di brogli elettorali nel corso delle elezioni presidenziali del 2009 hanno ri?ettuto preoccupazioni più ampie riguardo alla scarsa governabilità e alla corruzione endemica all'interno del governo. Gli afgani si sono trovati ad affrontare situazioni di illegalità associata a un ?orente traf?co di droga, un sistema giudiziario debole e inetto e a una sistematica mancanza di rispetto dello stato di diritto. Ha continuato a prevalere un clima di impunità e il governo è stato incapace di indagare e perseguire alti funzionari governativi da più parti ritenuti coinvolti in violazioni dei diritti umani, come pure in attività illegali.
Le Nazioni Unite, nel loro indice di sviluppo umano, hanno posto l'Afghanistan al secondo posto tra i 182 paesi più poveri al mondo. Il paese detiene il secondo più alto tasso di mortalità materna del mondo. Soltanto il 22% degli afgani ha accesso all'acqua potabile.

Questa, in sintesi, è la situazione di illegalità e di disagio sociale ed economico in cui versa l’Afghanistan. Gli osservatori internazionali e le organizzazioni che si occupano di libertà religiosa - tra queste, l’Istituto di diritto pontificio Aiuto alla Chiesa che Soffre - ritengono che nonostante le pressioni internazionali, il governo afgano non sembra in grado di attuare una politica rispettosa dei principi fondamentali che garantiscano una effettiva libertà religiosa.

Il peso della tradizione, i condizionamenti da parte delle fazioni islamiche radicali e la situazione di conflitto armato in molte province, determinano una situazione estremamente difficile non solo per la libertà religiosa, ma anche per il rispetto dei diritti umani fondamentali.

La Costituzione, approvata nel gennaio 2004, contiene elementi di ambiguità che consentono alle autorità locali interpretazioni più o meno restrittive dei diritti proclamati. Infatti, se da un lato si fa riferimento alla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (art. 7) - affermando che le religioni diverse dall’Islam sono «libere di manifestare la loro fede e di esercitare i loro riti entro i limiti previsti dalla legge» - dall’altro l’islam è dichiarato religione di Stato e «non possono esserci leggi contrarie ai principi e alle decisioni della sacra religione dell’Islam»(art. 3).

Questa contraddizione, nella vita quotidiana, affida ai tribunali che applicano la shari’a l’interpretazione e il giudizio sui singoli casi riguardanti a esempio la blasfemia o l’apostasia: reati peraltro non previsti nel codice penale. Infatti l’art. 130 della Costituzione prevede, in caso di vuoto legislativo su una materia, di attenersi alla giurisprudenza Hanafi, una scuola ortodossa di giurisprudenza sunnita, seguita nell’Asia centrale e del sud. La diffamazione dell’islam (blasfemia) o il suo rinnegamento (apostasia), risultano quindi tra i reati perseguibili secondo la legge islamica, che a riguardo prevede la pena capitale. Le conversioni sono di fatto vietate e chi abbandona l’Islam per abbracciare altre religioni è costretto a vivere clandestinamente la propria fede.

Presidente e vice-presidente del Paese devono essere musulmani, anche se non è specificato se sunniti o sciiti. Fortissima è l’influenza di mullah e imam locali, soprattutto nelle zone più lontane dai centri cittadini; di conseguenza, la vita quotidiana dell’afghano comune è regolata e gestita secondo regole tradizionali, i cui effetti più drammatici si manifestano, ad esempio, nella condizione di vita della donna.

Nonostante i tentativi di riforma in atto nel Paese, la situazione della libertà religiosa rimane ancora molto difficile e tutto fa pensare che per giungere eventualmente a condizioni tollerabili secondo gli standard internazionali, siano necessari tempi molto lunghi.

L’associazione Porte Aperte - che stima una presenza di circa 3mila credenti cristiani nel Paese, numero che si sta costantemente incrementando - nel suo rapporto annuale afferma che fuori dalla capitale, la pressione esercitata da movimenti islamici radicali, inclusi i neotalebani, è forte e questi ultimi non permettono ad alcuna persona di abbandonare l’islam.  Anche tutta la società in generale esercita una notevole pressione su ogni individuo afgano che voglia cambiare la propria religione. Molti credenti afgani finiscono quindi per tenere solo per se stessi la propria fede e di condividerla con quelle poche persone che sono di loro stretta fiducia. Inoltre, le famiglie stesse e i leader religiosi locali esercitano una non indifferente pressione su qualunque individuo che voglia cambiare la propria religione. Tutte queste persone rischiano la propria vita per aver cambiato religione.

[Nella foto: afghani cristiani esuli in Irlanda protestano contro le violazioni della libertà religiosa nella loro patria]