Imprenditori, chi istiga al suicidio?
Si moltiplicano i suicidi legati alla crisi economica. E allora nasce, da un'iniziativa privata, una class action contro i governi Monti e Letta, accusati di "istigazione al suicidio". Giusta l'indignazione, ma è una indiretta giustificazione del suicidio.
I suicidi fanno notizia. I suicidi sono tanti. Quelli legati alla crisi economica sono una trentina, dall’inizio dell’anno, in appena due settimane. L’ultimo caso drammatico riguarda un commerciante di Milano, 52 anni, impiccatosi nel suo negozio perché non riusciva più a far fronte alle spese e alle tasse. Sempre a Milano, capitale economica d’Italia, altri due uomini hanno cercato di farla finita in appena due giorni, sempre a causa della crisi. Allungandosi la moria, partono anche le iniziative, che rendono pubblico il suicidio, trasformandolo in un’arma di protesta. Già durante i picchetti dei Forconi, i nomi, l’età e l’identità professionale dei defunti, erano scritti su manifesti affissi ai muri o portati dai manifestanti. Gente benestante fino al giorno prima, poi travolta dalla crisi: questa è la storia che accomuna tutti loro.
Da questa settimana la protesta dei suicidi è diventata una causa legale. L’ha lanciata Antonio Corcione, in seguito a un’iniziativa della sua radio web Radio Informazione Libera e ha raccolto già circa 15mila adesioni nei primissimi giorni: una class action contro il governo per “istigazione al suicidio”. I governi Monti e Letta sono ritenuti responsabili di aver creato le premesse dei numerosi suicidi di imprenditori e partite Iva, aumentando la pressione fiscale, tagliando la spesa sociale e ritardando i pagamenti ai suoi numerosissimi fornitori. Corcione giustifica chi si toglie la vita con queste parole: «Questi (i ministri, ndr) pensano che chi arriva a togliersi la vita sia un pazzo o un debole. Ma non è così. È gente abbandonata dal governo e dallo Stato. Quei morti ce li hanno tutti sulla coscienza». In che senso abbandonati? «Se ci fossero politiche sociali le persone non arriverebbero a tanto. Ma ai politici interessano di più gli F35 e le auto blu che i problemi di chi resta senza lavoro».
In un momento di esasperazione collettiva come quello che stiamo vivendo, la provocazione lanciata da Antonio Corcione può apparire addirittura scontata, se non apprezzabile. E rischiamo di perdere di vista il suo messaggio vero: un ennesimo insulto alla vita. Vediamo di scoprirlo un po’ per gradi.
Prima di tutto: il governo è direttamente responsabile dei suicidi? Polemica a parte, l’unico responsabile di un suicidio è il suicida stesso. Nemmeno nei lager e nei gulag era realmente possibile costringere un detenuto al suicidio. E molti sono sopravvissuti, fino allo stremo, nonostante torture, fame e umiliazioni di tutti i tipi subite per anni e anni, pur di averla vinta sui loro persecutori. L’Italia, con le sue brutture e difficoltà, non è un campo di sterminio. Le alternative che la nostra vita ci offre sono ancora moltissime. Si può cambiare azienda, cambiare mestiere, cambiare Paese e nessuno ci costringe a morire. Di fronte a un uomo che cerca di togliersi la vita, l’atteggiamento giusto, doveroso, è semmai quello di incoraggiamento alla vita, non di giustificazione del suo gesto estremo. Non è poi affatto detto che l’atto di togliersi la vita sia direttamente legato a una condizione economica (che, come tale, è temporanea e superabile). Vari altri elementi, quali una visione pessimista dell’esistenza, problemi di salute e familiari inducono una mente a sommare il tutto, non reggere più il peso e disperare della salvezza. Un uomo che si suicida è giunto a un tale livello di disperazione da non credere che esista più un futuro possibile. Sbandierando i suicidi, dando la colpa a qualcun altro (i governi Monti e Letta, in questo caso), si finisce per sminuire quella condizione o addirittura giustificare quello che è un estremo gesto di resa della persona.
In che modo il governo ci spingerebbe al suicidio? Secondo il promotore dell’iniziativa, «Se ci fossero politiche sociali le persone non arriverebbero a tanto. Ma ai politici interessano di più gli F35 e le auto blu che i problemi di chi resta senza lavoro». Questo denota che la nostra vita dipende solo da quello che lo Stato spende? La ricchezza ce la creiamo noi, siamo noi artefici della nostra fortuna in ultima analisi. Se non la troviamo qui, la possiamo cercare all’estero. Cosa vuol dire, allora che, se lo Stato non spende abbastanza per noi, allora siamo “spinti al suicidio”? È un ricatto: “pagami, o mi tolgo la vita”? A parte alcuni gesti dimostrativi di protesta, come quello che due giorni fa ha visto protagonista il leader dei commercianti dell’Aquila (minacciava di darsi fuoco), quasi mai arrivati fino all’auto-immolazione, l’aspirante suicida non si pone in una logica ricattatoria, ma definitiva. Il ricatto si fa per ottenere qualcosa. In vita. E non sempre la disperazione porta a chiedere risorse. Spesso spinge a cercarle. I nostri nonni e bis-nonni, analfabeti e con la valigia di cartone, andavano a cercare lavoro, esperienza e (in ultima analisi) una nuova vita, fino in Australia, dall’altra parte del mondo, quando non c’erano ancora aerei. E loro pativano la fame. E ora si ritiene giusto, naturale, comprensibile che i loro nipoti si suicidino se non ottengono più soldi dallo Stato? Per il successo di una protesta, qualunque essa sia, serve una persona viva, libera e disposta a lottare, non una che chiede soldi e poi si toglie la vita se non li ottiene.