Imperativo morale di accogliere: i costi inaccettabili
La vicenda degli africani emigrati in Israele, la loro sorte sempre più incerta ripropongono la necessità di definire con urgenza status e relativi diritti di chi entra illegalmente in un paese e ciononostante chiede di potervi restare. Non si ammette che a distinguere, respingere, rimpatriare sia un paese occidentale, benché l’imperativo dell’accoglienza senza limiti imposto ai paesi europei produca immensi danni.
AFRICANI IN ARRIVO DA ISRAELE. ANZI NO di Stefano Magni
La vicenda degli africani emigrati in Israele, la loro sorte sempre più incerta ripropongono la necessità di definire con urgenza status e relativi diritti di chi entra illegalmente in un paese e ciononostante chiede di potervi restare, anche se non ha mezzi di sussistenza: non un paese qualsiasi, solo quelli occidentali (e neanche tutti) perché chi invece tenta l’ingresso irregolare in Kenya, nelle Maldive, in Cina e nella maggior parte dei 196 stati sovrani del mondo sa di avere poche probabilità di riuscirci, sa che di solito non lo lasciano neanche uscire dall’aeroporto, se viaggia in aereo, e che alle frontiere di terra ha più probabilità di passare, ma solo a condizione che abbia abbastanza denaro e sappia gestire i rapporti con i funzionari.
Gli africani, a cui Israele ha proposto di tornare in patria oppure in Uganda e Rwanda, prima, e, dopo che questa opzione è stata scartata come illegale e ingiusta, in qualche paese occidentale, sono le ennesime vittime dell’imperativo morale assoluto, insensato dell’accoglienza dovuta, indiscriminata se a chiederla, a qualsiasi titolo e in qualsiasi situazione, sono persone che vivono nel mondo non occidentale (nel Terzo Mondo, si diceva una volta) e se la loro destinazione sono i paesi europei e qualche altro stato industrializzato, come è appunto Israele.
Gli stranieri che arrivando in Europa non ottengono lo status di rifugiato e neanche protezione sussidiaria, perché in patria non corrono particolari pericoli, allora sono emigranti per motivi economici, come centinaia di milioni di altre persone. Ne differiscono, però, perché viaggiano illegalmente, forzano o aggirano i confini, molti anche perché mentono sulla loro condizione dicendosi profughi senza esserlo: nel 2017 in Italia sono arrivate poco più di 119.000 persone e le richieste di asilo sono state più di 116.000, 6.827 delle quali accettate.
Respingerli è legittimo. Regolare o no, aprire le frontiere a chi emigra per lavoro, stabilire quanti e quali emigranti accettare è prerogativa di governi e imprese, in base alla domanda di lavoro e ad altri fattori economici e sociali variabili nel tempo.
Accoglienza e solidarietà non hanno a che vedere con il mercato del lavoro. In Costa d’Avorio, a lavorare nelle piantagioni di cacao, sono ammessi tanti stranieri quanti ne servono, così è per le miniere del Sudafrica, per l’industria turistica del Kenya, per le attività estrattive della Nigeria e degli altri paesi produttori di petrolio. Nessuno pensa, nemmeno l’Onu e le Ong, di reclamare ad esempio con il governo del Senegal se un emigrante economico viene respinto o a un certo punto viene mandato a casa perché per lui non c’è lavoro. D’altra parte di solito è lui stesso a partire. Non lo si rimprovera neanche se espelle degli stranieri senza occupazione perché si capisce la difficoltà di assistere e mantenere persone bisognose, il diritto e il dovere di non far gravare sulla popolazione autoctona il peso di provvedere a loro e il rischio per la sicurezza che comporta la presenza di persone senza legami e mezzi legali di sussistenza.
Non si ammette invece che a distinguere, respingere, rimpatriare sia un paese occidentale, benché l’imperativo dell’accoglienza senza limiti imposto ai paesi europei produca immensi danni: i rischi e i costi elevati dei viaggi clandestini, famiglie e comunità abbandonate, i morti, non solo in mare, gli anni migliori della vita, formativi, persi a vivere senza un futuro in terre lontane, tra gente sempre meno comprensiva e motivata a condividere e, per chi vede arrivare sempre nuove ondate di persone e deve farsene carico, i costi economici, la demoralizzazione, l’ingiustizia del ricatto morale, delle accuse di razzismo.
Su tutto c’è il danno più inaccettibile, estremo e talvolta irrimediabile arrecato ai profughi, 60 milioni di persone tra sfollati e rifugiati, in condizioni difficili, spesso disperate, a un passo dalla morte; e tra di loro, ai più inermi e vulnerabili, le donne e i bambini, vittime di maltrattamenti, umiliazioni, abusi sessuali. Nei loro confronti l’accoglienza, la solidarietà sono sì, un imperativo morale. Per quelli, i pochi, che chiedono asilo in Europa il danno dell’accoglienza illimitata sono l’incertezza, l’ansia, l’attesa per mesi di sapere se otterranno lo status di rifugiati perché le loro richieste si mescolano a quelle di centinaia di migliaia di altre persone che non meritano asilo, ma occorre accertarlo. L’altro danno è l’indebolirsi della compassione, l’insofferenza e l’insensibilità crescenti. Per tutti gli altri, profughi in campi e strutture dove si fanno confluire, se possibile, per garantire loro vitto, alloggio, cure mediche e sicurezza, il danno è la progressiva difficoltà di trovare risorse sufficienti. Sempre più spesso l’Acnur e le altre agenzie dell’Onu denunciano l’insufficienza dei mezzi, i ritardi nella consegna dei fondi promessi, la difficoltà di reperire il necessario. L’Acnur da solo nel 2017 ha speso quasi sette miliardi di dollari per assistere i profughi, 5,3 dei quali per provvedere ai rifugiati. Salvare e assistere gli emigranti illegali alla sola Italia nel 2017 è costato quasi cinque miliardi.