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IMMIGRAZIONE

Imperativo morale di accogliere: i costi inaccettabili

La vicenda degli africani emigrati in Israele, la loro sorte sempre più incerta ripropongono la necessità di definire con urgenza status e relativi diritti di chi entra illegalmente in un paese e ciononostante chiede di potervi restare. Non si ammette che a distinguere, respingere, rimpatriare sia un paese occidentale, benché l’imperativo dell’accoglienza senza limiti imposto ai paesi europei produca immensi danni.

AFRICANI IN ARRIVO DA ISRAELE. ANZI NO di Stefano Magni

 

Politica 04_04_2018
Tel Aviv, manifestazione pro-immigrati

La vicenda degli africani emigrati in Israele, la loro sorte sempre più incerta ripropongono la necessità di definire con urgenza status e relativi diritti di chi entra illegalmente in un paese e ciononostante chiede di potervi restare, anche se non ha mezzi di sussistenza: non un paese qualsiasi, solo quelli occidentali (e neanche tutti) perché chi invece tenta l’ingresso irregolare in Kenya, nelle Maldive, in Cina e nella maggior parte dei 196 stati sovrani del mondo sa di avere poche probabilità di riuscirci, sa che di solito non lo lasciano neanche uscire dall’aeroporto, se viaggia in aereo, e che alle frontiere di terra ha più probabilità di passare, ma solo a condizione che abbia abbastanza denaro e sappia gestire i rapporti con i funzionari.  

Gli africani, a cui Israele ha proposto di tornare in patria oppure in Uganda e Rwanda, prima, e, dopo che questa opzione è stata scartata come illegale e ingiusta, in qualche paese occidentale, sono le ennesime vittime dell’imperativo morale assoluto, insensato dell’accoglienza dovuta, indiscriminata se a chiederla, a qualsiasi titolo e in qualsiasi situazione, sono persone che vivono nel mondo non occidentale (nel Terzo Mondo, si diceva una volta) e se la loro destinazione sono i paesi europei e qualche altro stato industrializzato, come è appunto Israele. 

Gli stranieri che arrivando in Europa non ottengono lo status di rifugiato e neanche protezione sussidiaria, perché in patria non corrono particolari pericoli, allora sono emigranti per motivi economici, come centinaia di milioni di altre persone. Ne differiscono, però, perché viaggiano illegalmente, forzano o aggirano i confini, molti anche perché mentono sulla loro condizione dicendosi profughi senza esserlo: nel 2017 in Italia sono arrivate poco più di 119.000 persone e le richieste di asilo sono state più di 116.000, 6.827 delle quali accettate.

Respingerli è legittimo. Regolare o no, aprire le frontiere a chi emigra per lavoro, stabilire quanti e quali emigranti accettare è prerogativa di governi e imprese, in base alla domanda di lavoro e ad altri fattori economici e sociali variabili nel tempo.

Accoglienza e solidarietà non hanno a che vedere con il mercato del lavoro. In Costa d’Avorio, a lavorare nelle piantagioni di cacao, sono ammessi tanti stranieri quanti ne servono, così è per le miniere del Sudafrica, per l’industria turistica del Kenya, per le attività estrattive della Nigeria e degli altri paesi produttori di petrolio. Nessuno pensa, nemmeno l’Onu e le Ong, di reclamare ad esempio con il governo del Senegal se un emigrante economico viene respinto o a un certo punto viene mandato a casa perché per lui non c’è lavoro. D’altra parte di solito è lui stesso a partire. Non lo si rimprovera neanche se espelle degli stranieri senza occupazione perché si capisce la difficoltà di assistere e mantenere persone bisognose, il diritto e il dovere di non far gravare sulla popolazione autoctona il peso di provvedere a loro e il rischio per la sicurezza che comporta la presenza di persone senza legami e mezzi legali di sussistenza.

Non si ammette invece che a distinguere, respingere, rimpatriare sia un paese occidentale, benché l’imperativo dell’accoglienza senza limiti imposto ai paesi europei produca immensi danni: i rischi e i costi elevati dei viaggi clandestini, famiglie e comunità abbandonate, i morti, non solo in mare, gli anni migliori della vita, formativi, persi a vivere senza un futuro in terre lontane, tra gente sempre meno comprensiva e motivata a condividere e, per chi vede arrivare sempre nuove ondate di persone e deve farsene carico, i costi economici, la demoralizzazione, l’ingiustizia del ricatto morale, delle accuse di razzismo.

Su tutto c’è il danno più inaccettibile, estremo e talvolta irrimediabile arrecato ai profughi, 60 milioni di persone tra sfollati e rifugiati, in condizioni difficili, spesso disperate, a un passo dalla morte; e tra di loro, ai più inermi e vulnerabili, le donne e i bambini, vittime di maltrattamenti, umiliazioni, abusi sessuali. Nei loro confronti l’accoglienza, la solidarietà sono sì, un imperativo morale. Per quelli, i pochi, che chiedono asilo in Europa il danno dell’accoglienza illimitata sono l’incertezza, l’ansia, l’attesa per mesi di sapere se otterranno lo status di rifugiati perché le loro richieste si mescolano a quelle di centinaia di migliaia di altre persone che non meritano asilo, ma occorre accertarlo. L’altro danno è l’indebolirsi della compassione, l’insofferenza e l’insensibilità crescenti. Per tutti gli altri, profughi in campi e strutture dove si fanno confluire, se possibile, per garantire loro vitto, alloggio, cure mediche e sicurezza, il danno è la progressiva difficoltà di trovare risorse sufficienti. Sempre più spesso l’Acnur e le altre agenzie dell’Onu denunciano l’insufficienza dei mezzi, i ritardi nella consegna dei fondi promessi, la difficoltà di reperire il necessario. L’Acnur da solo nel 2017 ha speso quasi sette miliardi di dollari per assistere i profughi, 5,3 dei quali per provvedere ai rifugiati. Salvare e assistere gli emigranti illegali alla sola Italia nel 2017 è costato quasi cinque miliardi.