Impeachment, parte il primo processo a un ex presidente
Un nuovo record storico è stato battuto negli Stati Uniti: per la prima volta il Senato ha dato il via al processo di impeachment ad un ex presidente, stabilendo con un voto a maggioranza semplice che è costituzionale. La votazione si è tenuta ieri pomeriggio. Sei i senatori repubblicani che hanno votato contro Trump. Ne servono altri 11 per condannarlo.
Un nuovo record storico è stato battuto negli Stati Uniti: per la prima volta il Senato ha dato il via al processo di impeachment ad un ex presidente, stabilendo con un voto a maggioranza semplice che è costituzionale. La votazione si è tenuta ieri pomeriggio (notte, in Italia) e ha vinto la parte convinta che sia conforme alla Costituzione processare un capo di Stato il cui mandato è scaduto il 20 gennaio. Non solo hanno votato i Democratici, compatti e unanimi, ma anche sei senatori repubblicani. Si tratta di una prima vittoria di immagine per gli accusatori, ma il fatto che solo sei Repubblicani abbiano disertato il loro campo fa ben sperare la difesa. Per ottenere una condanna, occorre infatti una maggioranza qualificata e almeno 17 senatori del Grand Old Party (Gop) dovrebbero votare assieme ai Democratici.
Il voto si è aperto ieri alle 13 (ora di Washington DC) con una potente arringa dell’accusa, corredata anche di un video sull’irruzione nel Campidoglio dei sostenitori di Trump. Il breve video alterna il discorso di Trump del 6 gennaio, giorno della certificazione del voto presidenziale, con le scene dell’irruzione dei manifestanti nella sede del Congresso americano. Le immagini si concludono con il tweet di Trump in cui, pur prendendo le distanze dal raid, conferma la sua tesi: le elezioni sono truccate.
L’accusa punta alle emozioni forti. Il deputato democratico Jamie Raskin, che ieri ha guidato la squadra degli accusatori, ha rinverdito la memoria del raid con dettagli personali, come quello dei senatori che scrivevano messaggi di addio ai loro familiari. Anche se, alla fine, non si è trattato di un attacco terroristico che mirava a una strage, ma di una manifestazione disarmata, Raskin descrive gli eventi come se fossero i ricordi di un nuovo 11 settembre. “Spero che questo processo ricordi all’America quanto è personale la democrazia. E quanto personale sia la perdita della democrazia”. Nella sua arringa, motiva la costituzionalità di un processo di impeachment ad un politico non più in carica, con l’intento dei padri fondatori, che “riguarda sempre la responsabilità, proteggendo la società e impedendo la corruzione degli uomini di Stato”.
Joe Neguse, neoeletto deputato democratico, ha proseguito nell’arringa dell’accusa sempre ricordando ciò che è avvenuto il 6 gennaio. “Quel che voi avete vissuto quel giorno, quel che il nostro Paese ha vissuto quel giorno, è il peggior incubo dei costituenti divenuto realtà”. E di qui l’accusa specifica: “Un presidente non può aizzare un’insurrezione nelle sue ultime settimane di mandato e andarsene come se nulla fosse successo”.
La parola è poi passata alla difesa, le cui arringhe sono state considerate “poco convincenti” dai media, non solo quelli liberal, ma anche quelli più conservatori. Tuttavia, i due avvocati della squadra di Trump, David Schoen e Bruce Castor, hanno citato tutti i principi fondamentali che rendono questo processo surreale. David Schoen ha sostenuto che, se questo è un processo sulla responsabilità del presidente, allora sarebbe meglio attendere i risultati di un’indagine completa. Attualmente ci sono suggestioni soggettive: la parola del presidente, le azioni della massa, la correlazione fra le due non è dimostrata né dimostrabile. Schoen sostiene che il processo sia solo politico: “è un’occasione per politici faziosi di eliminare Donald Trump dalla scena politica americane e di provare del diritto di voto decine di milioni” di elettori che lo hanno votato a novembre. Bruce Castor, che certamente premia il patriottismo e il senso del dovere dei senatori e condanna senza esito l’incursione nel Campidoglio, comunque tiene a sottolineare che la libertà di parola è protetta dal Primo Emendamento della Costituzione statunitense. Le parole di Trump non possono essere perseguite. Le azioni illegali contro la sede del Congresso sono responsabilità di chi le ha commesse. Nessun procuratore, sostiene Castor, sta accusando gli oltre 200 rivoltosi, attualmente sotto processo, di aver cospirato assieme al presidente. Quindi perché processarlo in Congresso?
Gli argomenti dell’accusa hanno convinto sei senatori del Gop a votare dalla parte dei Democratici, ma per almeno cinque di loro il voto non fa notizia. Si tratta, infatti, di Lisa Murkowski (che ha quasi sempre votato contro Trump), Susan Collins (una delle poche pro-aborto, assieme alla Murkowski), Ben Sasse (che ha appena pubblicato un video in cui si schiera contro il “culto della personalità” di Trump, contro il quale ha votato sin dal 2016), Pat Toomey (che ha votato altre volte assieme ai Democratici, anche su questioni spinose come l’emendamento per introdurre maggiori controlli su chi acquista armi), Mitt Romney (ex candidato presidente, acerrimo rivale di Trump e a capo della corrente dei Never-Trumpers repubblicani). L’unica sorpresa è rappresentata da Bill Cassidy, che in precedenza aveva votato perché il processo non si tenesse neppure.
In compenso si sta rafforzando lo zoccolo duro di difensori dell’ex presidente. Undici senatori hanno votato contro anche alla risoluzione bi-partisan che ha fissato le regole di base del processo. Fra questi spiccano Ted Cruz (leader del Tea Party texano ed ex candidato presidente), Rand Paul (il principale esponente della corrente libertaria del Gop), Ron Johnson, Josh Hawley.
Sono abbastanza remote le possibilità che i Democratici possano portare dalla loro parte altri 11 senatori, oltre ai 6 che hanno votato contro l'ex presidente. Ma non sembra neppure questo il loro scopo. L'importante è dannare la memoria dell'ex presidente. Sempre che questa dannazione non si ritorca sull'accusa.