Immigrazione, i vescovi americani esagerano
Nel recente documento sulla gestione dell’immigrazione, la Conferenza episcopale degli Stati Uniti entra nell’ambito delle “questioni prudenziali”, finendo nel terreno dell’opinabile.

I vescovi degli Stati Uniti hanno pubblicato nel mese scorso delle Linee guida sulla gestione delle immigrazioni nel loro Paese. La loro lettura conferma l’idea che questi documenti ecclesiali non dovrebbero entrare nell’ambito delle cosiddette “questioni prudenziali”, ossia di quelle scelte che sono devolute alla coscienza responsabile e debitamente formata degli uomini, perché concernono questioni che possono essere affrontate in molti modi. La virtù della prudenza è la principale guida in questi casi. L’istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Libertatis conscientia (1986) spiega che la Chiesa offre «un insieme di principi di riflessione e di criteri di giudizio e quindi di direttive di azione». Essendo orientata all’azione, la sua Dottrina sociale, «pur ispirata a principi sempre validi, comporta anche dei giudizi contingenti». Certo, ma qui si intendono valutazioni di grande respiro e non opinioni sulla gestione di aspetti particolari che sono lasciati alla libera decisione umana guidata dalla prudenza. Scelte di questo tipo appartengono al campo delle scelte prudenziali degli uomini di governo perché riguardano situazioni che potrebbero essere impostate anche altrimenti, pur rimanendo nell’ambito del lecito morale.
Per esempio, i vescovi dicono che non si deve schierare l’esercito ai confini, che il rimpatrio (o “deportazione”, come impropriamente viene anche detto) è immorale e dovrebbe essere ridotto al minimo, che l’asilo dovrebbe essere facile da ottenere, che dovrebbe essere consentita una maggiore immigrazione. Simili indicazioni entrano nel campo della discrezionalità e dell’opinione, col pericolo, facendole proprie, di tradire una certa influenza di parte politica.
Due aspetti delle raccomandazioni dei vescovi americani sono di particolare interesse. Il primo riguarda il criterio di non mettere in atto l’espulsione quando questo comporta dividere una famiglia. Pur tenendo conto dell’importanza del criterio di mantenere le famiglie degli immigrati unite il più possibile, bisogna però notare che la responsabilità di aver infranto la legge sull’immigrazione, con tutte le conseguenze che ne derivano, è primariamente dei capi di quella famiglia. Non sembra un principio della Dottrina sociale della Chiesa che le famiglie debbano essere garantite indipendentemente dallo status legale dei loro membri. O quantomeno, sulla questione è possibile una libera discrezionalità prudenziale. Il secondo aspetto riguarda l’indicazione che le migrazioni dovrebbero essere affrontate preventivamente nella patria d’origine. Questo lo afferma anche la dottrina cattolica, secondo la quale esiste un diritto a rimanere nella propria patria, ma non si può trasformare la scelta di aiutare con un obbligo di farlo, né si può dire che, non avendo abbastanza aiutato i Paesi d’origine, ora bisogna accogliere indiscriminatamente i loro immigrati.
Stefano Fontana