Ilva, addio bene comune
Uno scontro fra magistratura e governo provoca la perdita di 1400 posti di lavoro e non contribuisce al risanamento dell'ambiente a Taranto, inquinato dalle acciaierie dell'Ilva. In questo scontro, ogni parte in causa fa prevalere il suo pezzetto di ragione, perdendo di vista il bene comune.
La situazione a Taranto assume pieghe sempre più inquietanti, tanto che la questione "Ilva" sembra definitivamente compromessa dacché il gip Patrizia Todisco, magistrato e inquisitore dei comportamenti del gruppo Riva, proprietaria dell'acciaieria, ha dato il via a un sequestro di 916 milioni di euro dai conti correnti dell'imprenditore. In seguito a questo escamotage – che non tocca che tangenzialmente la legge 231 "Salva-Ilva" indetta dal precedente governo proprio per evitare la chiusura completa di uno stabilimento fondamentale per l'intero settore siderurgico nostrano – la risposta della famiglia Riva non si è fatta attendere.
Così, il gruppo Riva ha dato notizia di 1400 esuberi di personale all'interno del proprio settore produttivo. Saranno le aziende dell'indotto dell'Ilva ad essere toccate dalla riduzione del personale, e cesseranno le attività produttive gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco) e di servizi e trasporti (Riva Energia e Muzzana Trasporti). «Tali attività – afferma l'azienda Riva Acciaio – non rientrano nel perimetro gestionale dell'Ilva e non hanno quindi alcun legame con le vicende giudiziarie che hanno interessato lo stabilimento Ilva di Taranto». In particolare, nello stabilimento ionico saranno "soltanto" 114 i dipendenti di Taranto Energia a restare senza stipendio, poiché le risorse finanziarie della società che fornisce energia all'acciaieria sono state travolte dalla valanga di sequestri disposti dalla Todisco.
E mentre il ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato è alla ricerca di una soluzione che salvaguardi i diritti dei lavoratori e insieme garantisca il funzionamento dell'Ilva, il segretario nazionale della Uilm Mario Ghini spiega senza mezzi termini la situazione: «Gli esuberi sono la diretta conseguenza del sequestro preventivo di beni immobili, finanziari e societari», checché ne dica Riva Acciai. Lo sa bene il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante che lunedì incontrerà il ministro Zanonato e insieme ragioneranno sul futuro dell’acciaieria e dei lavoratori. «Il commissariamento di Riva Acciaio mi pare impossibile – ha dichiarato il ministro – ma si sta valutando se è tecnicamente possibile rivolgersi a tribunali civili per valutare se esiste un sequestro che non blocca i beni strumentali».
«Sto cercando di farmi un'idea - ha proseguito Zanonato – per capire attraverso il giudizio di tecnici se le acciaierie oggetto di sequestro possono funzionare anche con il sequestro dei conti correnti e, se sì, faremo pressioni sull'azienda».
Pare chiaro che lo scontro, più che giocarsi tra Emilio Riva e il magistrato Patrizia Todisco, tocca ben altre sfere. Da una parte, una magistratura ideologizzata e distante dalla realtà, e dall’altra un governo che sta cercando invano di arginarne lo strapotere. Il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi, ha commentato così la decisione di Riva di chiudere sette impianti italiani dell’indotto: «È la conseguenza di un braccio di ferro tra magistratura e Governo, con la magistratura che ha prevalso vanificando, di fatto, ben due leggi dello Stato, la legge 231 e quella successiva sul commissariamento».
La situazione in realtà è anche più complessa perché gli attori sono molti e la paralisi attuale è il frutto di decenni di decisioni, negligenze, intrecci e complicità in cui è difficile distinguere torti e ragioni: l’Ilva peraltro nasce a Taranto come azienda statale, che i Riva prendono in mano solo una ventina di anni con diverse situazioni critiche pregresse; ci sono poi gli enti locali, i sindacati, ognuno con le sue parti di ragioni e le sue responsabilità.
Finché ognuno cercherà di far prevalere il proprio pezzetto di ragione su altre ragioni la situazione non potrà che peggiorare, come effettivamente sta accadendo: la bonifica ambientale non procede, una grande azienda viene messa in ginocchio e i posti di lavoro sono sempre più a rischio, non solo a Taranto.
A tutti è chiesto perciò un sacrificio in vista di un bene comune, che nella fattispecie significa garantire l’attività produttiva dell’acciaieria mentre si procede alla bonifica ambientale, gradualmente ma in tempi certi. Al momento tuttavia l’ostacolo più grosso è rappresentato dalla magistratura che, in nome di una giustizia astratta, è disposta ad affossare acciaieria e ambiente pur di affermare un principio. È un altro indizio che rende urgente una riforma della giustizia che riporti il potere giudiziario al ruolo previsto dalla Costituzione, che non è né legislativo né esecutivo.