Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
LETTURE

Ilia e Alberto: quando il male mostra la bontà di Dio

Dodici anni dopo la morte della moglie fu pubblicato il romanzo che risentiva delle vicende autobiografiche di Angelo Gatti: i felici anni di nozze e il travaglio sorto nello scrittore dopo la morte dell’amata raccontano un uomo che amava Dio solo di fronte al bene e alla giustizia, ma che fu salvato dentro il dramma di una grande contraddizione.

Cultura 29_11_2020

Angelo Gatti (1875-1948) fu ufficiale di Stato maggiore sotto il comando del generale Cadorna, che affidò a lui l’incarico di raccontare le vicende storiche e militari e il diario della disfatta di Caporetto (1917).

Il suo maggior romanzo Ilia ed Alberto può essere considerato un caso letterario. Appena uscì, infatti, riscosse un successo incredibile tanto che nel 1947 erano già state effettuate quattordici ristampe. Dimenticato alla morte dell’autore, venne riscoperto solo nel 1994, quando fu inserito all’interno della collana I libri dello spirito cristiano (Rizzoli).

Terminata la Grande Guerra, Gatti si sposò con Emilia Castoldi, lasciò l’esercito e si dedicò alla letteratura, seguendo una collana di diari e di resoconti di guerra per la casa editrice Mondadori. Nel 1927 il matrimonio fu segnato dalla morte della moglie. Dodici anni più tardi fu pubblicato Ilia e Alberto che risentiva delle vicende autobiografiche: i felici anni di nozze e il travaglio sorto nello scrittore dopo la morte dell’amata.

La prima parte del romanzo («La casa in ordine») racconta i primi anni di matrimonio di Ilia (abbreviazione di Emilia) e Alberto quando tutto sembra corrispondere alle attese dei protagonisti che toccano «il limite estremo della felicità» in una vita che procede secondo i progetti.

Alberto si sente giusto e a posto con la vita e con il mondo: intimamente buono e onesto, desideroso d’ordine e di giustizia, nemico del male e della violenza, propugnatore operoso del bello e dell’utile, era indotto ad ammettere una forza che, come i credenti, chiamava senza riluttanza, Dio. Ma questo Dio non scendeva in lui, né per un irresistibile desiderio, né per un’ansiosa ricerca: se l’era fatto lui a modo suo, per regolare e raddrizzare i torti della vita terrena. Perché gli pareva che le cose andassero male in basso, aveva delegato all’Onnipotente l’ufficio di farle andar bene dall’alto. Creatoselo con quello scopo, Alberto viveva con lui in perfetta eguaglianza. Ad ogni spettacolo di bellezza, di grandezza o di bontà, alzava istintivamente lo sguardo, in atto di riconoscimento, di merito e di ringraziamento: la creatura era contenta del creatore. Ma, ad ogni ingiustizia, violenza o viltà troppo sfrontata degli uomini, quel Dio era egualmente chiamato in causa da Alberto; e la creatura, se non chiaramente, certo intimamente, chiedeva conto dell’opera al creatore

Emblematica in una scena è la corsa di Ilia e Alberto in automobile. Il viaggio è sempre stato simbolo della vita. Nelle opere antiche avveniva per nave o a piedi (pensiamo alla partenza di Abramo verso la Terra promessa o ad Ulisse che ritorna a casa dopo i dieci anni di guerra e gli altrettanti di traversie per il Mar Mediterraneo). Nel Medioevo l’homo viator è un pellegrino sulla Terra verso le mete di pellegrinaggio (Gerusalemme, Roma, Santiago de Compostela). Nell’epoca delle grandi esplorazioni e delle scoperte di nuove terre le navi diventano strumento di perlustrazione di nuove frontiere oltre i limiti dell’umana conoscenza. Nell’Ottocento il treno accorcia le distanze e diventa nuovo monstrum, prodigio della modernità. Nella carducciana Alla stazione in una mattina d’autunno (Odi barbare) i fanali di una locomotiva a vapore in un plumbeo cielo di una mattina d’autunno trasmettono una tristezza profonda, sancita dalla definitiva chiusura degli sportelli. Il «mostro» moderno, prodigio sorprendente, «va empio; con traino orribile», perché porta lontana l’amata Lidia. Il mezzo che accorcia il tempo del viaggio crea anche distacco e distanza, allontana l’amata e l’amore, porta via con sé le gioie.

Ora nella contemporaneità diventano protagonisti nuovi mezzi, come l’aereo nel romanzo dannunziano Forse che sì forse che no, o l’automobile, tanto esaltata dai futuristi e da loro considerata più bella della Nike di Samotracia. Così sfreccia l’automobile di Alberto:

«"Ehi" diceva l’automobile con la sua tromba, mentre andava rapida e silenziosa, come un gran personaggio, che passa una rivista, ma ha poco tempo da perdere; "ehi, lasciatemi passare, che ho fretta; ehi" diceva quell’automobile "porto due felici; ehi, ce ne sono poche automobili come me. Era un piacere osservare come la piccola macchina indovinava da lontano un pericolo o approfittava di un’occasione propizia per buttarsi innanzi; come sgusciava fra due carrozze, scansava un ragazzo».

Mentre Ilia chiede al conducente Pietro di guidare con prudenza, Alberto, tronfio e sicuro di sé, come se le sciagure e gli imprevisti riguardassero solo gli altri, replica: «Dove ci sono io, non ci sono disgrazie». I due giungono al cinema dove la luce del paesaggio e la velocità del viaggio si traducono in buio improvviso e immobilità, immagine presaga della condizione in cui sprofonderà ben presto la vita dei due giovani sposi.

Alle porte incombe un fatto imprevisto e inaspettato, il dramma della malattia e poi la morte di Ilia. Si apre una voragine sotto i suoi piedi di Alberto che vede venir meno tutte le sue certezze:

«Ilia morta è fuori di posto, e mi trascina con sé. Cosi, senza un principio e un fine, tutto quello che avevamo sentito, pensato e fatto insieme non ha più significato e valore. Mi pare d’essere campato in aria. Bisogna ch’io senta questa vita come un anello d’una catena non interrotta; che la morte d’Ilia sia per me una separazione passeggera, non una perdita eterna, perché io ritorni a capire qualcosa».

Alberto deve riscoprire e incontrare di nuovo Ilia. Deve conoscerla, una volta che è morta, proprio perché non è davvero morta, ma è ancora lì presente, anche se in una forma diversa e nuova.

Prima, però, Alberto deve intraprendere un nuovo viaggio. Il punto di partenza è la rabbia che investe il mondo intero, come capita a tutti noi quando percepiamo quanto accade come disgrazia, cioè «non-grazia», non segno di un Mistero che mi ha toccato e mi ha provocato. Perdura «il rancore nascosto e inconfessato, ma profondo e violento, contro i fortunati: e per lui i fortunati, ormai» sono «tutti i vivi». «La sventura» non l’ha reso migliore.

Il viaggio di Alberto deve attraversare e perlustrare sé stesso, il male, il dolore, l’umana miseria. Una tappa significativa è quando Alberto chiede a Don Regazzoni come riesca ad amare l’uomo e a credere in un Dio che ha creato questo «animale così cattivo, che bisognerebbe piangere di gioia ogni volta che fa un’opera buona». La risposta del prete è bellissima: «Anzi, per questo. Con Dio il mondo è un mistero, senza Dio un assurdo».

C’è una fiammella che permette di fuoriuscire dalle tenebre e di camminare verso la meta:

«Questo è il bello. Conoscere l’uomo, capire ogni giorno il male che fa, e operare come se fosse buono ed ogni giorno compisse il bene. Andare innanzi per la via oscura, perché lontano si scorge una fiammella, e vivere per quella fiammella, che però assicura l’esistenza del fuoco. Perdonare, come dice Gesù, perché gli uomini non sanno che cosa fanno».

Si può sempre scommettere sull’uomo e sulla sua capacità di amare, anche quando sbaglia mille volte. Il perdono riafferma proprio questa ferita del cuore che si àncora a quel bene più profondo a cui noi aneliamo.

Nella profonda riflessione esistenziale che attraversa le righe si coglie il sospiro anelante ad una felicità piena che si traduce alla fine in presagio di gioia certa, assaporamento del «già e non ancora», del «centuplo quaggiù e dell’eternità». In maniera significativa l’ultima parte, intitolata «Il cuore in pace», si apre con il capitolo «Sì»:

«Gli uomini hanno inventato i giorni, i mesi e gli anni, per rammentare a se stessi di aver vissuto: in questo modo si sono fatti eterni. […] Lunedì, martedì, mercoledì, le settimane finiscono e poi ricominciano […]. Così, al ritornare dei giorni, dei mesi e degli anni, gettano per un momento l’àncora nel passato; rinnovano intanto le poche gioie e i molti dolori, ma della sofferenza non si curano».

In fin dei conti, il viaggio della vita è alla scoperta di sé, come capisce Alberto alla fine:

«Gli sembrava d’essere tornato alla scoperta di sé, che tutti gli uomini un giorno intraprendono. C’è chi lo intraprende con la fede e chi con la ragione, chi in fretta e chi pazientemente, chi dolorando a lungo e chi consolandosi presto, chi, infine, confessandolo e chi fingendo d’ignorarlo: ognuno tenta l’impresa con forze e modi differenti, e ognuno conosce soltanto il proprio affanno, ed è estraneo e quasi nemico all’altro. […] Forse, nessun viaggio reale sulla terra e nel cielo era stato mai tanto pieno di mistero e di maestà, quanto quello in cui nulla era successo secondo il ragionamento e la logica, e l’amore soltanto aveva indicato e aperta la via».

Dopo tanti anni, tanto dolore e tanta fatica accade anche ad Alberto:

«La fede nello spirito d’Ilia, la fede concepita […] come atto semplice» conduce «naturalmente Alberto verso il perfetto. Ilia operosa lo guidava in alto senza che egli quasi se n’accorgesse; e, mentre egli camminava sulle tracce di lei, gli parevano meravigliose le parole di San Giovanni: «Chi fa la verità viene alla luce». […] Dalla mostruosa solitudine saliva un’invocazione sola: “Gesù Cristo, pietà!” perché i nati dell’uomo, che non avevano chiesto di vivere, non volevano soffrire e morire. E il Figlio dell’uomo sentiva la giustizia dell’invocazione. […] Ilia, sicuramente, ora procedeva con la moltitudine dei fedeli, che avevano posato nel bacio del Signore”».