Il Washington Post non appoggia la Harris: il fallimento dei media
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Il Washington Post, una settimana fa, ha annunciato che non darà il suo sostegno ad alcun candidato per le presidenziali. Ha perso un decimo dei suoi abbonati, ma per l'editore Jeff Bezos (Amazon) si tratta di una battaglia di civiltà nei media.
Il Washington Post, una settimana fa, ha annunciato che non darà il suo sostegno ad alcun candidato per le presidenziali. Per venerdì 25 era pronto l’editoriale di endorsement per Kamala Harris, ma l’editore, Jeff Bezos, fondatore di Amazon, ha detto “no” e ha annunciato una linea neutrale. In una settimana ha perso un decimo dei suoi abbonati, circa 250mila. E soprattutto 10 editorialisti hanno annunciato le dimissioni, oltre al celebre politologo Robert Kagan che era regolarmente ospitato. Altri 21 giornalisti hanno sottoscritto una petizione in cui esprimono la loro contrarietà alla nuova linea del quotidiano.
Il Washington Post è uno dei quotidiani più antichi d’America, sta per compiere (a dicembre) i suoi 147 anni. Dopo un passato remoto da dimenticare (con una linea anche molto razzista) nel secondo dopoguerra si è affermato come l’autorevole quotidiano della sinistra capace di sfidare i potenti e anche il presidente stesso (ma solo se di destra). È del Washington Post, infatti, lo scoop dei Pentagon Papers, l’antenato di Wikileaks: la pubblicazione di documenti molto riservati sulla guerra del Vietnam, in cui i più alti decisori esprimevano scetticismo sulle possibilità di vittoria, il contrario di quel che dicevano in pubblico. I papers riguardavano soprattutto l’amministrazione democratica di Lyndon Johnson, ma a subire lo scandalo fu soprattutto il presidente in carica, il repubblicano Richard Nixon.
Fu sempre il Washington Post a travolgere la reputazione del presidente, con lo scoop del Watergate: la scoperta che il capo di Stato aveva spiato il Comitato Nazionale Democratico (che aveva sede nel complesso di condomini di Washington chiamato “Watergate”) durante la campagna elettorale del 1972. Lo scandalo, in due anni, portò alle dimissioni di Nixon. Tuttora è un caso citato di “schiena dritta” dei media e addirittura di superiorità del loro potere rispetto a quello presidenziale.
Jeff Bezos rivendica una neutralità storica del quotidiano, ricordando che non ci fu alcun sostegno fino alle elezioni del 1976, Jimmy Carter contro Gerald Ford, il vice subentrato a Nixon. Il Washington Post appoggiava Carter e vinse. Ma anche senza dichiarazioni esplicite, era chiaro da che parte pendesse anche prima. La campagna elettorale di Barack Obama ne ha fatto, praticamente, il quotidiano ufficiale dei Democratici. Quando il primo presidente nero governava, il Washington Post non era avaro di anticipazioni e retroscena che poteva ottenere solo grazie alla sua rete profondamente inserita nell’amministrazione.
Per questo, il mancato sostegno di Kamala Harris, soprattutto il mancato sostegno della candidata contro Donald Trump, ha scosso profondamente sia i giornalisti che i lettori dello storico quotidiano di sinistra. Soprattutto per chi ritiene che la democrazia sia in gioco. Il politologo Robert Kagan non esita a definire “fascista” Donald Trump. Intervistato da La Repubblica, spiega così l’avanzata della nuova minaccia di destra: «Fin dalla nascita, gli Usa hanno avuto un’ampia parte della popolazione che non si è mai riconosciuta nei valori fondanti. Non sono democratici e liberali, non credono nell’uguaglianza dei diritti. Ne abbiamo visto gli effetti, dalla schiavitù alla Guerra Civile, dal Ku Klux Klan al maccartismo. Ora queste persone hanno trovato in Trump il loro rappresentante». Ma allora perché 70 milioni di americani lo votano? Tutti fascisti? Secondo Kagan… sì: «È sconvolgente, ma dobbiamo prendere atto del fatto che il 40% degli americani sostiene il suprematismo bianco cristiano».
Si tratta di un’analisi lucida? Alla luce dei quattro anni di amministrazione Trump già conclusi nel 2020, si direbbe proprio di no. Il presidente repubblicano ha governato, ha anche ottenuto notevoli successi in economia e in politica estera, ma non ha sicuramente soppresso il sistema democratico. C’è chi dice che l’assalto dei sostenitori di Trump al Campidoglio del 6 gennaio 2021 fu un “golpe”. Ma proprio un politologo dovrebbe saper distinguere fra una protesta andata fuori controllo, come quella del 6 gennaio, e un piano di conquista del potere.
È proprio per un atteggiamento così fazioso ed estremo, che Jeff Bezos ha deciso di compiere questo passo, anche molto rischioso da un punto di vista editoriale. D’accordo che il fondatore e amministratore delegato di Amazon non ha alcun problema economico e anche se il Washington Post dovesse chiudere, morirebbe solo una minuscola parte del suo impero. Tuttavia, sono interessanti per tutti i media le spiegazioni che dà della sua scelta, che nel suo editoriale di lunedì 28 ottobre, definisce un “significativo passo nella giusta direzione”. Prima di tutto, parte da un’ammissione: i media, soprattutto i quotidiani, non contano più nulla nell’equilibrio del voto: «Nessun elettore indeciso in Pennsylvania – scrive Bezos – voterà dicendo “voto perché c’è il sostegno del tal quotidiano”. Nessuno. Quel che il sostegno ufficiale crea, semmai, è l’impressione di essere faziosi, l’impressione di non essere più indipendenti».
Ma soprattutto: «La dura verità è che gli americani non si fidano più dei media». Jeff Bezos cita il sondaggio Gallup in cui i media sono ultimi nella classifica sulla fiducia nelle istituzioni politiche e civili. Quindi: «Evidentemente stiamo facendo qualcosa di sbagliato». Come una macchina per il conteggio dei voti, anche i media funzionano se sono precisi e se la gente crede che lo siano. «Mentre stiamo fallendo nel secondo requisito – scrive Bezos – La maggioranza della gente crede che i media siano faziosi. Chiunque non se ne renda conto presta scarsa attenzione alla realtà, e chi combatte la realtà perde».