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CONGO E SOMALIA

"Il voto costa". Il prezzo della democrazia africana

Bilancio negativo sui diritti umani in Africa, secondo l'ultimo rapporto di Human Rights Watch. E ancora non include quel che sta succedendo in Congo, dove il presidente Kabila ha rimandato le elezioni a tempo indeterminato perché "costano troppo". O in Somalia, dove i candidati alla presidenza pagano caro ogni voto.

Esteri 21_02_2017
Joseph Kabila

L’ong Human rights watch ha appena pubblicato il suo rapporto annuale sul rispetto dei diritti umani nel mondo. Molto spazio vi è dedicato all’Africa dove nel 2016, secondo Hrw, si è registrato un degrado dello stato di diritto in molti stati e un regresso nella tutela dei diritti umani, negati soprattutto alle fasce sociali più deboli e povere. Il rapporto elenca i molti casi di corruzione, di garanzie costituzionali ignorate, di repressione cruenta del dissenso e dell’opposizione politica, di estensione e rinnovo dei mandati presidenziali violando le norme costituzionali o imponendone la modifica, di impunità penale di alte cariche accusate di crimini contro l’umanità. 

Il bilancio negativo di Hrw è del tutto giustificato e ancora il rapporto non tiene conto di due nuovi, recentissimi fatti. Il primo riguarda la Repubblica Democratica del Congo. A fine novembre 2016 nel paese si sarebbero dovute svolgere le elezioni presidenziali. Ma il capo di stato in carica, Joseph Kabila, che non si può ricandidare avendo già ricoperto i due mandati previsti dalla costituzione, ne ha impedito lo svolgimento con la complicità della Commissione elettorale secondo cui un irrecuperabile ritardo nella compilazione del registro degli aventi diritto al voto e problemi di bilancio costringevano a rimandare le presidenziali al 2018. Dopo giorni di proteste e di scontri tra opposizione e forze dell’ordine, con decine di morti tra i dimostranti, il governo e alcuni partiti di minoranza si sono poi accordati per andare alle urne entro il 2017. 

Ma il giovane Kabila non ha intenzione di rinunciare al potere, per questo prende tempo, per trovare una soluzione. Ha solo 45 anni e uno stuolo di parenti che devono a lui il fatto di controllare innumerevoli fiorenti imprese, controllo che potrebbero perdere con un nuovo presidente che a sua volta dovrà far spazio per parenti e sostenitori. La famiglia Kabila risulta titolare di oltre 120 permessi di sfruttamento di miniere di oro, rame, cobalto e diamanti, possiede o detiene azioni e quote di banche, aziende agricole, distributori di carburante, compagnie aeree, imprese di costruzione, alberghi, ditte fornitrici di prodotti farmaceutici, agenzie di viaggio, negozi, locali notturni... 

Così il 16 febbraio, per bocca del ministro del tesoro Pierre Kangudia, Kabila ha fatto sapere che, nonostante l’impegno preso, “purtroppo” non sarà possibile votare ento il 2017. Le elezioni presidenziali – ha detto il ministro – costeranno 1,8 miliardi di dollari e il Congo non è in grado di spendere una cifra del genere. Qualcuno ricorderà che anche il padre di Joseph Kabila, Laurent Désiré, dopo aver conquistato il potere con le armi nel 1997, aveva rifiutato di  far votare i propri connazionali. A una accigliatissima Madeleine Albright, allora segretario di Stato Usa, che gli chiedeva conto del processo democratico promesso e mai iniziato, aveva risposto ridendo che la democrazia costa: “mandateci del denaro e poi ne riparliamo”. Subito dopo se ne era andato esclamando: “comunque, non ho forse ribattezzato lo Zaire Repubblica democratica del Congo? E dunque, viva la democrazia!”

È indubbio che le elezioni costano: cifre scandalose, pare, quelle svoltesi l’8 febbraio in Somalia per eleggere il capo dello stato. “Probabilmente – sostiene il portavoce dell’ong somala Marqaati (Testimone, in lingua somala) – queste sono state le elezioni più care della storia”. Però Marqaati non si riferisce ai costi dell’organizzazione del voto, bensì al prezzo di ciascun voto, acquistato dai candidati, che al primo turno erano decine. Sembra che alcuni siano arrivati a pagare fino a 30.000 dollari per un voto: questo, sottolinea l’ong, in un paese in cui la maggior parte della popolazione è povera e che dipende in maniera determinante dai fondi dei donatori internazionali. 

Il capo dello stato avrebbe dovuto essere eletto a suffragio universale secondo quanto previsto da una road map concordata con la comunità internazionale. Ma per il voto popolare mancano tuttora le condizioni: il territorio somalo è frammentato, una parte del paese continua a essere controllata dai jihadisti al Shabaab, legati ad al Qaida, diverse regioni sono insicure e inoltre manca un censimento della popolazione e quindi un registro degli aventi diritto al voto. Perciò anche questa volta come in passato, da quando nel 2004 i clan in conflitto dal 1991 dopo la caduta del dittatore Siad Barre hanno accettato di formare un governo e un parlamento che li rappresentassero tutti, a scegliere il nuovo presidente sono stati i parlamentari: loro hanno venduto i voti ai candidati per decine di migliaia di dollari. 

Il voto per motivi di sicurezza si è svolto in un hangar dell’aeroporto internazionale della capitale Mogadiscio presidiato da centinaia di militari della Amisom, la missione di pace dell’Unione Africana. Al terzo turno è stato eletto Mohamed Abdullahi Mohamed, soprannominato Farmajo, Formaggio. Subito dopo l’annuncio della sua vittoria, gli al Shabaab hanno giurato di colpire tutti i collaboratori del nuovo presidente, nel comunicato definito “malvagio”. Il 16 febbraio hanno fatto esplodere dei colpi di mortaio nei pressi del palazzo presidenziale proprio mentre era in corso la cerimonia di insediamento di Mohamed Abdullahi Mohamed. Tre giorni dopo, il 19 febbraio, un’auto imbottita di esplosivo è saltata in aria in un punto molto affollato della capitale. Il bilancio provvisorio è di 34 morti e 50 feriti