Il vescovo di Trieste sottoscrive il linguisticamente corretto
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Mons. Trevisi firma il Manifesto della comunicazione non ostile. E per chi non si allinea? Il presule non ha dubbi: «isolare» (ma in modo "non ostile"...).
Un decalogo linguistico, oltre a quello “canonico” dei dieci comandamenti, dal 30 agosto scorso impegna la diocesi di Trieste, che nella persona del Vescovo, mons. Enrico Trevisi, sottoscrive il Manifesto della comunicazione non ostile.
Quella di Trieste è la prima diocesi – cui seguiranno Grosseto, Brindisi e Pinerolo – ad aderire all’iniziativa promossa dall’Associazione Parole O_Stili, che dal 2017 promuove – come si legge nel loro sito – «un progetto sociale contro la violenza delle parole». Il manifesto è articolato in dieci punti: 1) virtuale è reale; 2) si è ciò che si comunica; 3) le parole danno forma al pensiero; 4) prima di parlare bisogna ascoltare; 5) Le parole sono un ponte; 6) le parole hanno conseguenze; 7) condividere è una responsabilità; 8) le idee si possono discutere. Le persone si devono rispettare; 9) gli insulti non sono argomenti; 10) anche il silenzio comunica. A loro volta i dieci punti vengono declinati nei seguenti ambiti: per la politica, per la Pubblica Amministrazione, per le aziende, per l’infanzia, per lo sport, per la scienza, per l’inclusione. L’inclusione è assicurata visto che i dieci punti sono sufficientemente vaghi da poter includere tutto e tutti (benché tra i firmatari della versione “per la politica” vi sia una nettissima prevalenza di esponenti del PD).
Si direbbe che è stato più esplicito mons. Trevisi che nel suo intervento cita l’esempio storico delle divisioni tra cattolici e ortodossi, in cui «talvolta al posto che essere umili nel comunicare questa verità complicata che è Dio amore, Dio Trinità, il Signore Gesù Cristo vero Dio e vero Uomo, lo Spirito Santo che procede dal Padre (e anche dal Figlio? Questione ecumenica aperta) ci siamo reciprocamente offesi, intestarditi l’uno contro l’altro. In nome della verità (quale? Gesù Cristo o una formula che lo pietrifica?) ci siamo divisi e talvolta poi abbiamo nella storia faticato a riconciliarci e non sempre ci siamo riusciti». Detto così, il Filioque («procede dal Padre… e dal Figlio») diventa una pietra d’inciampo nella comunicazione, una parola ostile. Per difendere la quale santi e dottori della Chiesa si sarebbero «intestarditi», in nome non di Cristo bensì di «una formula che lo pietrifica». Come nota Silvio Brachetta su Duc in altum, portando il discorso alle estreme conseguenze pure «il dogma è divisivo» e allora meglio non crederci troppo – difatti il Vescovo “declassa” quella parte non secondaria del Credo a «questione ecumenica aperta».
Mons. Trevisi lamenta che «talvolta la nostra comunicazione intra-ecclesiale è infelice» (e perché sottoscrivere un decalogo "laico"? Non bastava il Vangelo? Ma come vedremo, anche nel Vangelo troviamo troppe "parole ostili"). Inevitabile l’accusa verso chi procede «insultando il Papa» e «svilisce il ministero del Papa e dei vescovi…» o dà patenti di eresia. Ma è inevitabile chiedersi dove fossero tutti questi difensori della figura del Papa fino al 2013, quando si ostentava un dissenso che colpiva più a fondo e senza particolari conseguenze (a titolo di esempio, tra i 63 teologi che nel 1989 contestavano san Giovanni Paolo II ne troverete anche qualcuno poi divenuto vescovo). Oggi invece basta esprimere una perplessità su orientamenti o gesti del Santo Padre per sentirsi bollare come “nemici del Papa”. Il fatto è che di fronte ai (giustamente) deprecabili eccessi basta il buon senso, non serve un decalogo aggiuntivo. Altrimenti sorge il dubbio che esso, più che a comunicare, serva a imbavagliare (ma con garbo e in modo “non ostile”).
Il dubbio è tolto dallo stesso presule, laddove suggerisce la terapia d’urto: «Io penso che occorre l’obiezione di coscienza e isolare chi comunica privo di un minimo spessore evangelico. Non si tratta di galateo o di buone maniere», sottolinea mons. Trevisi, «ma della verità che è il come Gesù comunica andando in Croce, imparando da lui, mite e umile di cuore». Ora, tratteniamo a stento l’obiezione: il Vescovo sta parlando di Gesù o, parafrasando le sue stesse parole, “di un decalogo che lo pietrifica”? Perché dal 30 agosto scorso è un po’ difficile che in diocesi di Trieste ci sia spazio per Uno che era sì, «mite e umile di cuore», ma che non le mandava a dire, tanto è ampio il repertorio dei divini insulti: da «Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna?» («razza di vipere» glielo aveva insegnato suo cugino, il Battista), ai famosi «sepolcri imbiancati… pieni di ossa e d’ogni putridume», fino al trattamento decisamente ostile riservato ai mercanti nel tempio, al « Guai a te, Corazin, guai a te, Betsàida!», fino a definire «Satana» il povero Simon Pietro (volendo qui il Figlio di Dio sarebbe passibile pure di insulto al Papa).
Ma non si tratta di singoli episodi: il problema risiede proprio nel “codice comunicativo” di Cristo, incentrato su quel «sì, sì, no, no» (e «il resto viene dal demonio», aggiunse con il proverbiale tatto di un elefante nella cristalleria). È un peccato, perché servendosi di un codice comunicativo adeguato e all’altezza dei tempi (magari dei tempi “giusti” incarnandosi duemila anni dopo) l’avrebbero risolta diversamente invece di finire sul Calvario. Lo spiegava Giovannino Guareschi (1908-1968) nel suo ultimo libro, Don Camillo e don Chichì, dove il parroco della Bassa si appresta a celebrare una Messa in suffragio delle anime dei morti d’Ungheria appendendo un ritratto del cardinale József Mindszenty (1892-1975), quando sopraggiunge indignato don Chichì, il pretino mandato ad affiancarlo perché si "aggiornasse", che osserva: «Perché questa smania di martirio? Non avrebbe potuto trovare anche lui un modus vivendi con l’autorità del suo paese?». «Bisogna compatirlo», risponde don Camillo, «è stato portato fuori strada da quell’altro tizio che s’è fatto inchiodare sulla croce. I soliti estremismi».
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