Il veleno del generale e la fine della tregua in Bosnia
La creazione della Repubblica croata di Herceg-Bosna fu un autodifesa contro la radicalizzazione islamica dello Stato centrale. Ma la conferma delle condanne e il suicidio choc in diretta tv di Praljak rappresentano la fine della tregua tra croati e bosniaco-musulmani con conseguenze imprevedibili.
L'udienza di ieri della Corte di Appello del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia dell’Aja - l’ultima in assoluto di questo Tribunale - avrebbe dovuto essere di assoluta routine ed era destinata a mettere l’ultimo tassello al teorema della comunità internazionale sulla guerra scoppiata negli anni novanta del secolo scorso nei Paesi resisi indipendenti dalla Jugoslavia, vale a dire il teorema della guerra civile in cui tutti i protagonisti sono stati colpevoli.
Tale tassello era rappresentato dalla scontata conferma delle condanne a dure pene detentive per sei uomini politici e militari dell’entità croata di Bosnia-Erzegovina al tempo della guerra, la Repubblica croata di Herceg-Bosna, e del suo braccio militare, il HVO (Hrvatsko Vijece obrane - Consiglio croato di difesa).
La routine di una sentenza scontata è stata sconvolta dal suicidio in aula di uno degli imputati, il generale Slobodan Praljak, avvenuto ingerendo un liquido da una boccetta che portava con sé, fatto ancora più drammatico in quanto avvenuto in diretta televisiva. E come sempre è accaduto in questi anni per le più importanti sentenze dall’Aja, la TV pubblica croata trasmetteva in diretta l’avvenimento.
Slobodan Praljak, settantaduenne, nativo di Čapljina, in Erzegovina, plurilaureato e di professione regista teatrale e cinematografico, si era guadagnato i galloni di generale organizzando con successo la quasi disperata difesa di Sunja, località a un’ottantina chilometri a sud di Zagabria e non lontana dal confine con la Bosnia-Erzegovina, attaccata nei primi mesi di guerra dai ribelli serbi appoggiati dall’esercito regolare jugoslavo.
In seguito, si trasferì nella natia Erzegovina, dove ricoprì fino al novembre 1993 ruoli di primo piano nell’HVO, distinguendosi nella direzione delle operazioni militari a difesa delle aree abitate in maggioranza da croati oggetto di attacco da parte dei musulmano-bosniaci.
Insieme agli altri cinque imputati di questo processo, e ai vertici di allora della Repubblica di Croazia - il presidente Franjo Tudjman, il ministro della difesa Gojko Šušak e il capo di stato maggiore dell’esercito Janko Bobetko, era accusato di partecipazione a un’associazione criminale che con la fondazione della Repubblica croata di Herceg-Bosna si sarebbe proposta di annettere alla Croazia le aree a maggioranza croata dalla Bosnia-Erzegovina, nonché di responsabilità di comando per crimini contro l’umanità, rappresentati da violenze contro civili musulmani e distruzioni di villaggi. Accuse generiche senza alcun riferimento a fatti specifici.
La sentenza di appello di ieri ha confermato in pieno l’impianto accusatorio.
In realtà la creazione della Repubblica croata di Herceg-Bosna rappresentò un atto di autodifesa dei croati di Bosnia-Erzegovina non solamente contro i serbi, bensì anche contro la crescente radicalizzazione in senso islamico dello Stato centrale e dell’esercito bosniaci. Molti mujaheddin arabi si erano arruolati in milizie bosniaco-musulmane che combattevano a fianco dell’esercito regolare. Sebbene sia ovvio che in caso di disintegrazione della Bosnia-Erzegovina i territori con maggioranza di popolazione croata sarebbero entrati a far parte della Repubblica di Croazia, presso i vertici dello Stato croato non vi fu a priori l’intenzione di annettersi i territori della Bosnia-Erzegovina.
A conferma di questo vi è l’attiva collaborazione tra Croazia e Bosnia-Erzegovina in ambito militare. Fu infatti grazie all’operazione Tempesta dell’agosto 1995, che liberò Knin e le aree occupate in Croazia dai ribelli serbi, che fu tolto l’assedio a Bihac, che rischiava di diventare una nuova e ben più grande Srebrenica, e che fu posta fine alla guerra in Bosnia.
Inoltre, durante la guerra in Bosnia la Croazia ospitò sul proprio territorio centinaia di migliaia di profughi musulmano-bosniaci, e ciò in un periodo in cui essa stessa aveva circa un milione di profughi fuggiti dalle aree occupate dai serbi.
In quel microcosmo impazzito che era la Bosnia-Erzegovina anche durante il conflitto tra croati e musulmani vi erano aree dove essi combattevano insieme contro i serbi - ad esempio, all’HVO fu assegnata la prima linea di difesa di Sarajevo, e lo stesso Praljak sovrintendeva l’invio di armi agli assediati della capitale bosniaca.
La storia di Praljak e degli altri imputati di questo processo di appello è la storia di tutti i generali e ufficiali croati che dopo avere rischiato la vita e difeso con successo il proprio popolo dal rischio di genocidio e di espulsione in massa dalla propria terra - il destino degli abitanti di Vukovar, Škabrnja, Knin, Aržano, Benkovac, Derventa, sarebbe stato il destino dell'intero popolo croato se esso non si fosse difeso strenuamente, all'inizio quasi a mani nude - a un certo punto si trovarono a essere accusati dalla comunità internazionale, bisognosa di trovare dei colpevoli per scrollarsi di dosso le proprie responsabilità di non avere fatto nulla per impedire il conflitto e fermare l’aggressore.
I generali croati Gotovina, Čermak e Markač, che nel 1995 guidarono l’Operazione Tempesta e insieme ai musulmani bosniaci stavano conquistando la Republika Srpska prima di essere fermati da un ordine perentorio degli Stati Uniti, furono condannati in primo grado a dure pene detentive, per poi essere assolti in secondo grado. Praljak e gli altri imputati dell’Herceg-Bosna sono stati meno fortunati.
E’ indubbio che vi siano state violenze anche da parte croata, ed esse vanno condannate, tuttavia non vi fu un’associazione criminale che avesse lo scopo di compiere violenze, stupri o pulizia etnica degli abitanti musulmani, come afferma la sentenza pronunciata ieri.
Dopo la sentenza dell’Aja e il gesto estremo del generale Praljak, i sentimenti comuni della stragrande maggioranza dei croati sono di incredulità e choc.
In un’ottica cristiana, tale gesto non può essere approvato, tuttavia se ne può comprendere il motivo: è il grido estremo di un uomo che prima di assumere volontariamente il veleno che lo avrebbe ucciso, ha gridato al giudice che aveva appena confermato per lui la sentenza di condanna, parlando di se stesso ma anche, in generale, del suo popolo: «Slobodan Praljak non è un criminale di guerra».
Questo grido di protesta è indirizzato anche verso la classe politica croata e il modo in cui essa, negli ultimi quindici anni, ha gestito i rapporti con la comunità internazionale con riferimento ai processi svoltisi dinanzi al Tribunale dell’Aja.
Le lacrime del primo ministro Plenkovic rispondendo alle domande sulla sentenza di ieri e sul suicidio di Praljak non possono far dimenticare che, come ha scritto Zeljka Markic, leader del movimento U ime obitelji (Nel nome della Famiglia), questi fatti sono «il frutto dell'incapacità e del servilismo di tutti i governi croati dal 2000 fino all'anno scorso». Era infatti troppo importante entrare nell’Unione Europea e nella NATO, bisognava sempre accettare i diktat provenienti da Bruxelles, anche a costo di sfigurare la dignità del proprio popolo.
L’altro ieri il quotidiano di Zagabria Večernji List scriveva che solo una sentenza di appello dall'Aja che riformasse la sentenza di primo grado contro i sei croati di Bosnia-Erzegovina avrebbe rappresentato un fondamento per la riconciliazione fra le varie etnie di quel Paese.
La conferma delle condanne e il suicidio di Praljak rappresentano quindi con tutta probabilità l’inizio della fine della tregua tra croati e bosniaco-musulmani e della Bosnia-Erzegovina come entità statale, con le conseguenze che purtroppo possiamo immaginare.