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MEDIO ORIENTE

Il Vaticano riconosce la Palestina? A certe condizioni

Il Vaticano riconosce il futuro Stato della Palestina e non è una novità, ma il frutto di un percorso iniziato subito dopo gli accordi di Oslo del 1993. La nuova intesa prevede un riconoscimento a fronte di intese ben precise, sul riconoscimento palestinese dello Stato di Israele e sulla garanzia della libertà di religione.

Editoriali 14_05_2015
Papa Francesco e Abu Mazen

Dunque anche papa Francesco si è messo a giocare con la bandiera della Palestina? Se ve l'hanno raccontato così, ieri, l'annuncio che il Vaticano ha raggiunto un accordo con lo Stato della Palestina, forse è meglio provare a guardarci un po' dentro e capire come stanno realmente le cose.

Intanto di che accordo si tratta? Nel 2000 - alla viglia dello storico viaggio di Giovanni Paolo II in Terra Santa - il Vaticano aveva firmato con l'Olp quello che in gergo diplomatico si chiama un accordo fondamentale: analogamente all'intesa dello stesso tipo firmata già nel 1993 con Israele, si definiva il quadro generale delle relazioni diplomatiche con l'allora Autorità Nazionale Palestinese, l'ente provvisorio che - nello schema degli Accordi di Oslo, tra israeliani e palestinesi - avrebbe dovuto trasformarsi alla fine di un percorso ben preciso in uno Stato. In diplomazia - però - gli accordi fondamentali definiscono solo la base in forza del quale avviene lo scambio degli ambasciatori. Poi si procede a negoziare degli Accordi bilaterali che vanno a normare i rapporti specifici, che in questo caso riguardano lo status giuridico e le modalità concrete di presenza della Chiesa in quel determinato Paese.

Dopo quindici anni ieri la Santa Sede e le autorità di Ramallah hanno annunciato con un comunicato congiunto che il negoziato su questi aspetti si è concluso e che presto l'Accordo bilaterale potrà essere firmato. Solo che l'intesa adesso sarà tra il Vaticano e lo Stato della Palestina, che nel frattempo - fallito il quadro delineato dagli Accordi di Oslo - il governo di Ramallah ha proclamato unilateralmente, tra le proteste di Israele.

Il Vaticano, dunque, riconosce lo Stato della Palestina? Sì, ma non da oggi. Già nel novembre 2012 - quando la questione fu portata al voto dell'Assemblea generale dell'Onu che si espresse favorevolmente con il voto contrario di appena nove Paesi (Israele, Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Isole Marshall, Micronesia, Nauru, Panama, Palau) - la Santa Sede con una nota aveva «accolto con favore il risultato della votazione» (e allora il papa si chiamava Benedetto XVI e il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone). Una posizione fortemente sostenuta dalle comunità cristiane locali, come spiegò con chiarezza allora il patriarca latino di Gerusalemme Fouad Twal. 

Il 25 maggio 2014, poi, a Betlemme, durante il viaggio apostolico in Terra Santa, papa Francesco in persona aveva citato «le buone relazioni esistenti tra la Santa Sede e lo Stato di Palestina», augurandosi che potessero «ulteriormente incrementarsi per il bene di tutti». Ed entrambe le volte che Abu Mazen si è recato in visita in Vaticano nei comunicati ufficiali la Santa Sede lo ha sempre definito come «il presidente dello Stato della Palestina».

Certo, la novità è che ora non si tratta più solo di parole e bandierine, ma di un atto che riconosce espressamente questo rango statuale in un accordo diplomatico. Ma quale sarebbe stata l'alternativa per il Vaticano? L'Autorità Nazionale Palestinese ormai è un'entità che esiste solo nella testa degli acrobati della diplomazia, che credono ancora in un processo di pace che non c'è più da tempo. Oggi qualsiasi atto di governo a Ramallah avviene sotto le insegne dello Stato di Palestina. Dunque - una volta raggiunta un'intesa su questioni che sono fondamentali per la vita concreta delle comunità cristiane in Terra Santa - che cosa avrebbe dovuto fare la Santa Sede? Secondo Israele lasciare perdere e attendere all'infinito (un po' come sta succedendo dal 1993 per l'accordo bilaterale con il governo di Gerusalemme, che nel linguaggio della diplomazia da anni è «in dirittura d'arrivo» ma non arriva mai, per ragioni che hanno più a che fare con la politica interna israeliana che con le questioni sul tappeto).

Il Vaticano ha scelto invece un'altra strada, un po' più lungimirante. Perché - con buona pace di tante keffiah nostrane - l'Accordo bilaterale non è affatto una scelta di campo per la Palestina. Intanto perché - stando a quanto spiegato ieri in un'intervista rilasciata all'Osservatore Romano da mons. Antoine Camilleri, sotto-segretario per i rapporti con gli Stati - fin dalle premesse il documento inserisce l'intesa nel quadro di una soluzione dei due Stati al conflitto israelo-palestinese. Dunque il riconoscimento vaticano dello Stato di Palestina è legato espressamente a una Palestina che riconosca lo Stato di Israele.

Ma - soprattutto - nell'Accordo bilaterale si esprime un riconoscimento non a un simbolo o a una bandiera vuota, ma a uno Stato che dovrà avere caratteristiche ben precise: come infatti ha aggiunto nella stessa intervista mons. Camilleri l'accordo contiene un «capitolo sulla libertà religiosa e di coscienza, molto elaborato e dettagliato». In una situazione in cui, per molti versi, lo Stato palestinese è ancora un gioco di società, pieno di contraddizioni (un posto in cui - ad esempio - non si tengono elezioni di alcun tipo dal 2006 per l'impossibilità conclamata di raggiungere accordi tra le fazioni) il Vaticano prova a mettere dentro a un atto giuridico almeno un punto fermo: la libertà religiosa e di coscienza per tutti. Un fatto non proprio insignificante, visto quanto sta accadendo in tutto il resto del Medio Oriente. E perché non siano solo parole nell'Accordo bilaterale si stabiliscono una serie di garanzie sulla libertà di azione della Chiesa, sul rispetto dei luoghi di culto, sull’attività sociale e caritativa, sul diritto per i cristiani a promuovere mezzi di comunicazione sociale. Cioè su tutti quegli strumenti che sono stati fino a oggi l'unico vero antidoto ai venti estremisti che soffiano impetuosi anche in Palestina. Alla fine questa - e non l'immobilismo - è l'unica via per tenere aperta una possibilità alla pace con Israele.

Infine un'ultima annotazione: l'Accordo bilaterale prevede per la Chiesa cattolica in Palestina anche un'intesa sul regime fiscale. Perché lo Stato che ha sede a Ramallah – evidentemente – riconosce che il servizio svolto da scuole, ospedali e realtà d'accoglienza cristiane sono una ricchezza per la società e va quindi tutelata. Sarebbe interessante capire se tanti di quelli che in queste ore esultano per «lo storico passo del Vaticano di papa Francesco verso la Palestina» lo stesso concetto sono disposti a sostenerlo anche in Italia...