Il testamento di don Sturzo
L'8 agosto del 1959, dopo quindici giorni di agonia successivi ad un collasso cardiaco, tornava alla Casa del Signore don Luigi Sturzo. A 60 anni dalla sua morte e a 100 dall'"Appello ai liberi e forti", resta di grande attualità la sua intuizione sull'ingresso dei cattolici nella politica nazionale.
L'8 agosto del 1959, dopo quindici giorni di agonia successivi ad un collasso cardiaco, tornava alla Casa del Signore don Luigi Sturzo. A 60 anni dalla sua morte e a 100 dall'"Appello ai liberi e forti", resta di grande attualità la sua intuizione sull'ingresso dei cattolici nella politica nazionale.
In un'epoca come quella contemporanea in cui è quasi quotidiano il rischio di vedere la fede marginalizzata nella vita pubblica delle nazioni, l'esempio del sacerdote di Caltagirone continua a rappresentare un punto di riferimento valido per chi concepisce l'azione politica come un campo di testimonianza cristiana. Il fondatore del Partito Popolare Italiano comprese in anticipo i pericoli derivanti dalla tendenza a negare alla fede il diritto di presenza pubblica addebitandone la causa originaria a quell’"errore moderno" di contrapporre Umanesimo e Cristianesimo: «Dell’Umanesimo - scrisse don Sturzo negli anni del suo esilio londinese - si è fatto un’entità divina; della religione cristiana un affare privato, un affare di coscienza o anche una setta, una chiesuola di cui si occupano solo i preti e i bigotti».
La sua lezione è l'antitesi della "dottrina Kennedy" sulla separazione assoluta tra Stato e Chiesa: egli predicò la coerenza tra l'esperienza spirituale e le attività pubbliche, la necessità di «portare il Vangelo nascosto sul petto», lasciandosi ispirare dagli insegnamenti del Magistero nella trattazione e nelle risoluzione dei problemi concreti. Il popolarismo sturziano non si fece promotore di una concezione confessionale dello Stato, ma si pose come obiettivo la costruzione e la conservazione di una società cristiana, intendendo con quest'aggettivo «un principio di moralità, la morale cristiana applicata alla vita pubblica di un Paese».
D'altra parte il contributo più rilevante che i cattolici possono dare alla politica, secondo il pensiero e l'opera del prete di Caltagirone, sta nell'impegno attivo e costante per la moralizzazione della vita pubblica. Un impegno che richiede coerenza ad ogni livello; per questo, don Sturzo ci teneva a ricordare che «lo spirito cristiano deve soffiare nella vita sociale e politica allo stesso modo e con la stessa efficacia che nella vita personale e familiare». Un'esigenza vissuta come fondamentale fino alla fine dei suoi giorni perchè considerata «il miglior servizio che si possa fare alla Patria nostra». Tra le altre cose, questo cruciale aspetto dell'apostolato del fondatore del Ppi dimostra come sia un errore storico attribuire la paternità della "questione morale" al Pci: è Sturzo il primo ad insistere sulla "pulizia morale, politica e amministrativa" e a denunciare le storture derivanti dall'«anello di congiunzione della partitocrazia con la burocrazia politicante e con il funzionarismo degli enti statali e parastatali».
Mussolini, che lo perseguitò inducendolo all'esilio all'estero, lo bollò come "sinistro prete", ma nel Dopoguerra l'antifascista don Sturzo fu anche uno degli avversari più tenaci di qualsiasi apertura a sinistra della Democrazia Cristiana: se la prese con quei diccì che «per convinzione e per occasione, sventolano la bandiera di sinistra», mettendoli in guardia dalla tentazione di cedere all'eccessivo dirigismo, convinto lui com'era della difesa del diritto di proprietà privata. Nel 1955, in un articolo su "Il Giornale d'Italia", il fondatore del Ppi tacciò di "follia" il modello economico social-comunista e ironizzò sulla "felicissima Russia" decantata dai 'compagni' italiani.
L'invito sentito e reiterato a rifiutare qualsiasi collaborazione con visioni totalitarie della società, a prescindere dal colore, fece appello a quei doveri morali imposti al politico cattolico dalla coscienza cristiana, quella chiamata ad attuare gli insegnamenti evangelici alle esigenze delle contingenze pubbliche. Il sacerdote siciliano rimase sempre ostile al socialcomunismo nostrano e dedicò gli ultimi anni della sua vita ad invitare la sinistra democristiana a non farsi ammaliare da quelle 'sirene': nel 1950 scrisse un articolo dal titolo eloquente - "Difendiamoci dal comunismo" - in cui mise in evidenza la presunta pericolosità della capillare pervasività comunista nelle amministrazioni, negli enti e negli organi statali, all'epoca agli albori.
A 60 anni dalla morte, di don Sturzo resta vivissimo il suo esempio di testimonianza cristiana nella politica e nella società, sorgente a cui possono abbeverarsi ancora oggi coloro i quali vogliono mettersi a servizio per il bene comune, mantenendo intatta l'ispirazione della propria fede. Proprio alla sua penna dobbiamo, infine, il ritratto di quello che può essere considerato una sorta di testamento politico: «Ho sentito e sento - scrisse don Sturzo nel 1959 in un brano di 'Speranze e auguri' - la vita politica come un dovere e il dovere dice speranza. (..) Io che credo nella Provvidenza divina, sono certo che la mia voce, anche se spenta, rimarrà per qualche tempo ancora ammonitrice per la moralità e la libertà nella vita politica e perciò contro lo statalismo, contro la demagogia, contro il marxismo. Spero che i cattolici riprendano coraggio, senza bisogno di mutuare dai socialisti idee sociali ed etiche delle quali questi ultimi ignorano il valore, senza bisogno di cercare a sinistra alleati infidi nè a destra collaboratori malevoli; ma curando di essere se stessi affrontando le difficoltà che la vita stessa impone e soprattutto correggendo certi errori del passato che ne hanno alterato la linea».