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ORO NERO

Il tesoro della Tempa Rossa

E' la più grande area petrolifera europea quella che si cela fra le alture della Basilicata. La Total, assieme alla Shell e alla Mitsui, ci ha investito un miliardo e mezzo di euro per la produzione di 50mila barili di greggio al giorno, anche a beneficio dell'economia italiana e locale. Ma politica, ambientalisti e magistratura rischiano di mandare tutto a monte.

Creato 02_04_2016
Tempa Rossa

Prima che venisse sfruttato dall’ingegno umano, il petrolio era solo un liquido puzzolente e inquinante. In Basilicata, questo liquido è presente in abbondanza, non solo nel sottosuolo ma anche in superficie. Talvolta appesta l’aria uscendo dalle rocce come fosse acqua sorgiva, corre a valle e si accumula in laghi pestilenziali. Può sembrare solo una disgrazia della natura. Non fosse che, debitamente trasformato e usato, quel liquido scuro vale un tesoro. E’ proprio per trasformarlo in ricchezza, in una delle regioni più povere d’Italia, che è nato il progetto Tempa Rossa dieci anni fa. Ora, dopo mille blocchi burocratici e politici, a poco più di due settimane dal referendum sulle trivelle, i lavori al progetto Tempa Rossa si sono fermati a causa della duplice indagine della procura di Potenza. Una riguarda lo smaltimento dei rifiuti dell'impianto Eni di Viggiano, l'altra, invece, l'iter di autorizzazione ai lavori della compagnia Total. E' quest'ultima indagine che ha già provocato una vittima collaterale politica: il ministro Patrizia Guidi. E potrebbe provocarne un'altra, industriale: lo stesso progetto Tempa Rossa.

Il progetto prevede, prima di tutto, la messa in produzione di otto pozzi petroliferi, di cui due ancora da perforare perché mancano tuttora le necessarie autorizzazioni. I pozzi saranno affiancati da un centro industriale per il trattamento degli oli, dove i vari prodotti verranno separati in: greggio, gas combustibile, zolfo, GPL, incanalati in vari tipi di oleodotti e trasportati per la vendita. Oltre a questo impianto vi sarà anche un centro di stoccaggio del GPL, composto da due serbatoi da 3000 metri cubi di capacità, dotati di quattro punti di carico stradale. In pratica, sarà una grande pompa di carburante prodotto in proprio. Attorno al quale è prevista anche la modernizzazione di tutte le infrastrutture necessarie ai servizi: strade nuove, oleodotti, gasdotti, elettricità per alimentare gli impianti. Questo progetto, una volta completato e a regime, stando alle previsioni, produrrà 50mila barili di petrolio al giorno, 230mila metri cubi di gas metano, 240 tonnellate di GPL, 80 tonnellate di zolfo purissimo. Coprirà il 40% della produzione petrolifera in Italia. Il greggio estratto verrà mandato alla raffineria dell’Eni di Taranto dove verrà trasformato in benzina, gasolio e altri combustibili. Sarà Taranto il suo terminal, dove verrà imbarcato sulle petroliere per la vendita oltre mare.

Il progetto Tempa Rossa è gestito dalla francese Total. La Total lavora al progetto assieme alla Shell, già interessata al petrolio italiano nello Ionio, e alla Mitsui. Non si tratta, comunque di un’opera di multinazionali straniere a beneficio esclusivo di capitali stranieri, ma è un grande investimento (circa 1,6 miliardi di euro) per la Basilicata, per sfruttare quella che risulta essere la più grande area petrolifera in tutta Europa. Nel 2006, diciassette anni dopo la scoperta del giacimento, la compagnia francese ha stipulato con la Regione un accordo per dividere il valore del giacimento con la cittadinanza locale: royalties per gli enti locali, lavoro, sviluppo ambientale, sviluppo sociale, servizi nuovi. Non è “svendita”, ma un incentivo allo sviluppo industriale. La distribuzione e la raffinazione saranno invece opera dell’Eni, la compagnia italiana.

Però le autorizzazioni tardano a venire, le autorità locali si oppongono, i movimenti ambientalisti protestano. Anche a Taranto i lavori sono fermi da anni per l’opposizione della politica locale e degli ecologisti. Il giacimento petrolifero in Basilicata si trova a ridosso di due parchi, quello di Gallipoli e quello dell’Appennino Lucano, grandi attrazioni turistiche locali la cui bellezza rischia di essere contaminata dagli impianti. Sul vicino giacimento, quello della Val d’Agri (sfruttato dall’Eni), si è aperta l’altra inchiesta parallela: si accusa la compagnia di inquinare le acque. L’Eni, per bocca dei suoi esperti, ritiene che sia un'accusa infondata, che l’acqua sia già inquinata da petrolio che si trova nel sottosuolo. Gli ambientalisti accusatori ritengono invece che inquini le falde acquifere con la sua opera di estrazione. Estrarre acqua sporca di petrolio e ri-immetterla nel sottosuolo è comunque un’attività sotto la lente di ingrandimento della magistratura perché è considerata come uno smaltimento irregolare di rifiuti: per il solo fatto che quell’acqua viene estratta assieme al petrolio, essa diventa un “rifiuto” a norma di legge.

Taranto avrebbe bisogno urgente del progetto, diventandone il terminal: è una città economicamente depressa dopo la chiusura (per via giudiziaria e per motivi ambientali) dell’Ilva. Ieri gli oppositori tarantini del progetto, organizzati nel “Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti” cominciavano a chiedere la testa anche di monsignor Santoro, reo, a detta loro, di aver accettato una sponsorizzazione della Total per il recente Mysterium Festival. L’arcivescovo di Taranto, favorevole al referendum contro le trivelle, nega ogni accusa, dichiara di non aver preso nemmeno un centesimo. “La Total – spiega l'arcivescovo – è sponsor principale dell’orchestra della Magna Grecia per tutto l’anno, quindi non potevo chiedere all’orchestra di rinunciare a uno sponsor che garantisce l’attività di tanti musicisti per diversi eventi e non soltanto al Mysterium. Mi sento così sereno e libero da qualunque vincolo economico e politico che ho appoggiato pubblicamente il Si al referendum del 17 aprile”. Lo scorso mese di maggio, il Palio di Taranto aveva rinunciato, per principio, agli sponsor di Total, Shell e Mitsui. E resta in bocca l’amaro sapore di una caccia alle “streghe”, per quanto si accusino collusioni con una multinazionale giudicata come il demonio e che invece vorrebbe semplicemente investire sul territorio. Mentre altre compagnie disinvestono o rinunciano a progetti in Italia. come la Shell, che lo scorso febbraio ha abbandonato l’esplorazione dello Ionio: 2 miliardi di investimenti accantonati che non verranno più spesi in Italia. Probabilmente, alla fine, vinceranno i “buoni”: vincerà la natura incontaminata, col suo liquido puzzolente destinato a rimanere tale.