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"SEDICENTE" STATO ISLAMICO

Il terrorismo jihadista non si sconfigge ignorandolo

Un attentatore suicida tenta di fare la strage in un campus nell'Ohio e la colpa è "delle pistole" (che non sono state nemmeno usate). In Germania due ragazzini preparano una strage di bambini e si scopre che un funzionario del servizio segreto era una talpa jihadista. L'Italia ritira la richiesta di estradizione del Mullah Krekar.

Esteri 01_12_2016
Ohio, sul luogo dell'attentato

Gli ultimi episodi di terrorismo in Germania e negli Stati Uniti rivelano quanto lo Stato Islamico sia profondamente introdotto nella nostra società e persino (nel caso della Germania) nei nostri apparati di sicurezza. La debole eco dei media, la lentezza della reazione e anche il ritiro dell’estradizione del Mullah Krekar da parte dell’Italia, sono tutte dimostrazioni di quanto siamo ancora poco attrezzati per affrontare il pericolo. 

Negli Stati Uniti, lunedì mattina, Abdul Razak Ali Artan, uno studente somalo di 18 anni ha compiuto un atto simile a quello dei terroristi suicidi che agiscono in Israele o lo stragista di Nizza. Ha fatto irruzione con la sua auto in un campus dell’Ohio State University, travolgendo studenti a caso e poi ha cercato di completare l’opera a colpi di machete. Fortunatamente per le vittime, non è riuscito ad uccidere nessuno anche se la sua intenzione era esplicita. I feriti sono 12. La polizia, intervenuta sulla scena del crimine, ha ucciso l’attentatore. Lo studente in questione era un immigrato regolare, dotato di carta verde, aveva il diritto di studiare all’università come tutti i suoi coetanei con permesso di soggiorno. Ha agito con cognizione di causa, non per raptus. Sul suo profilo Facebook ha lasciato il suo “testamento”, citando l’imam del terrore Anwar al Awlaki: “Sono stanco e pieno di rabbia nel vedere i miei fratelli e sorelle musulmani uccisi e torturati ovunque nel mondo. Non posso sopportare oltre. America! Piantala di intervenire negli altri paesi se vuoi che noi musulmani finiamo di compiere attacchi da lupi solitari”. Lui stesso è diventato un lupo solitario.

La famiglia del futuro terrorista aveva lasciato la Somalia nel 2007, poi aveva vissuto per sette anni in Pakistan per stabilirsi infine negli Usa nel 2014. Sul giornale studentesco Lantern, lo scorso agosto, il futuro attentatore aveva rilasciato di recente un’intervista in cui diceva: “Vorrei pregare all’aperto, ma sono spaventato da tutto quel che sento nei media. Se la gente mi osserva, osserva un musulmano che prega, non so cosa stia pensando, cosa stia per succedere. Ma non do loro la colpa. Sono i media che instillano la paura nelle loro menti”. Paradossalmente, la paura di far paura di Artan, ha finito per confermare tutte le peggiori angosce che si possono provare quando si incontra un compagno di università musulmano. In quella intervista, il ricorso del futuro terrorista ad un linguaggio anti-razzista, anti-stereotipi e anti-islamofobia lo ha messo al riparo, ha allontanato da lui qualunque sospetto. Non è detto che si sia trattato di dissimulazione. Nelle parole di Artan si legge, semplicemente, una diffidenza totale nei confronti della società che lo aveva appena accolto, una paura reciproca data per scontata, l’impossibilità di integrarsi, un “mors tua vita mea”. Le autorità, i docenti, i compagni, o chiunque avrebbe potuto prevenire l’attacco, al contrario, è prevalsa un’auto-censura. Per paura di apparire razzisti, non lo hanno indagato. E il risultato si è visto.

In Germania non è stato portato a termine alcun attentato. Sappiamo, ora, quelle che erano le intenzioni dei terroristi dell’Isis: fare una strage in un asilo di Essen, con gelati avvelenati e un furgone-bomba nel parcheggio per uccidere anche i genitori. L’attacco avrebbe potuto essere compiuto da giovanissimi attentatori, già arrestati in aprile per un attacco dinamitardo a un tempio sikh. I due diciassettenni, benché in carcere, stavano pianificando la loro strage di innocenti, chiedevano lumi al capo della loro cellula sulla legittimità dell’azione, stando a quanto si legge dai messaggi di uno dei due, Yusuf T., intercettati dalla polizia tedesca: “Posso uccidere anche i bambini? Con il mio furgone posso distribuire il gelato ai bambini. E' consentito dalla legge della Sharia usare l'arsenico o warfarin, o meglio ancora stricnina?” Ora l’avvocato del capo della cellula dichiara che il suo cliente si sia pentito e voglia collaborare con le autorità. La legge tedesca gli darà questa chance.

Ma ciò che lascia veramente perplessi è il grado di infiltrazione nelle istituzioni, anche negli apparati di sicurezza. L’arresto compiuto martedì sera in Germania non riguarda un ragazzino che vuole compiere una strage, ma un funzionario del servizio segreto interno tedesco (BfV) che stava facendo il doppio gioco. Un cittadino integerrimo, un padre di famiglia, convertitosi all’islam due anni fa (prima di essere assunto dal BfV), stimato dai colleghi per il suo “buon lavoro”. Un lavoro svolto per l’Isis, per preparare attentati, sfruttando la copertura e le informazioni del suo posto di lavoro. Un difensore della società che spiana la strada a chi vuole attaccarla dall’interno. Ce ne saranno altri? Accade solo in Germania?

A questo stillicidio continuo di attentati (contando anche quelli falliti, hanno ormai una cadenza quasi settimanale) non corrisponde un grado di consapevolezza e attenzione dei media che siano all’altezza. Dell’attacco in Ohio si è parlato relativamente poco e inizialmente anche molto male. Nonostante fosse abbastanza evidente la matrice terrorista, per lo meno stando al primo comunicato della polizia locale, i media e il mondo politico statunitensi hanno reagito con la consueta voglia di negare l’evidenza dei fatti. Il senatore democratico Tim Kaine, la deputata democratica Sheila Jackson, l’attivista anti-armi Shannon Watts avevano già espresso su Twitter il loro disappunto per “l’ennesimo episodio di violenza con le armi da fuoco”, senza documentarsi prima e senza sapere che nessun’arma da fuoco era stata impiegata. E’ un riflesso condizionato degli ambienti progressisti, ormai: se c’è una notizia di morti o feriti in un campus, sarà sicuramente colpa delle pistole e del Secondo Emendamento (e dei conservatori che difendono il diritto a portare armi). Al contrario, non fosse stato per un poliziotto armato di pistola, probabilmente il bilancio delle vittime dell’attentato sarebbe stato ancora più drammatico. Alla fine ci ha pensato lo stesso Isis a svelare l’arcano, rivendicando l’attentato martedì sera e definendo Artan “un nostro valoroso soldato”. In Germania è persino difficile capire quanto sia forte il rischio terrorismo, perché molti degli episodi di questa estate sono stati bollati come atti di follia individuale.

Proprio mentre emerge questa cruda realtà, dalla Norvegia apprendiamo che l’Italia ha ritirato la richiesta di estradizione del Mullah Krekar, uno dei maggiori sospettati jihadisti in Europa, un uomo che ha inneggiato apertamente al terrorismo suicida e già in carcere per istigazione alla violenza. Lo ha annunciato la Procura norvegese: ha ricevuto dal nostro Ministero della Giustizia una lettera, spedita il 25 novembre, in cui si comunica la decisione di fare marcia indietro, a causa della sentenza “di un tribunale italiano” del marzo scorso. Pare che la sentenza impugnata da Roma sia la revoca dell'arresto da parte del Gip di Trento per cinque di sette presunti jihadisti della rete Rawti Shax. Uno di questi è il Mullah Krekar. Il Gip aveva spiegato la sua decisione con una dilatazione dei tempi processuali che non poteva andare a discapito dei diritti costituzionali degli indagati, in particolare con una “privazione della libertà personale” da giustificare “tenendo conto anche del tempo trascorso dalla commissione del reato”. Il mullah era stato arrestato in Norvegia, su richiesta delle autorità italiane, nel novembre del 2015, poco più di un anno fa. Ora torna in libertà, con gran gioia del suo avvocato (che inneggia alla "vittoria del diritto") e gran pena per i norvegesi che non vedevano l'ora di sbarazzarsene.

Vige, insomma, la regola (non scritta) che non si debba considerare il terrorismo jihadista come una guerra in corso, nemmeno come un’emergenza, ma come un fenomeno di ordinaria criminalità. Dunque: niente prime pagine, niente ricorso a termini “ideologici” (come terrorismo islamico o jihadismo), nessuna “generalizzazione” (come se le guerre fossero combattute individualmente da ogni singolo soldato), ricorso alla giustizia ordinaria (con la sua ordinaria lentezza) per i processi. E’ questo il modo di affrontare lo Stato Islamico. Ma è il modo giusto per sconfiggerlo? Per fare un parallelo storico, finché le Brigate Rosse erano “sedicenti” e non sono state combattute con la necessaria determinazione, hanno continuato ad espandersi. Solo il cambio di rotta seguito all’omicidio Moro nel 1978 ha permesso di sconfiggerle nei quattro anni successivi. Finché non si cambierà rotta con il “sedicente” Stato Islamico, sarà difficile pensare di vincere questo terrorismo.