Il terrore islamico che insanguina l'Africa
Il 18 aprile a Mogadiscio, la capitale della Somalia, un terrorista è morto mentre tentava di piazzare una bomba lungo una strada tra le più frequentate. L’ordigno è esploso uccidendolo senza fare altre vittime, ma poteva essere una strage.
Il 18 aprile a Mogadiscio, la capitale della Somalia, un terrorista è morto mentre tentava di piazzare una bomba lungo una strada tra le più frequentate, nei vicinanze del raccordo K4 dove si concentrano le scuole e gli atenei della città. L’ordigno è esploso uccidendolo senza fare altre vittime, ma poteva essere una strage.
L’attentato fallito segue di pochi giorni quello messo a segno il 14 aprile, poche ore prima degli attacchi dinamitardi di Boston, nel vasto complesso che ospita il tribunale di Mogadiscio. In quel caso, prima un commando armato ha aperto il fuoco. Poi, al sopraggiungere delle forze di sicurezza, una, forse due autobomba comandate a distanza sono esplose. Dei nove terroristi autori dell’azione, sei indossavano giubbotti esplosivi e tutti portavano divise della polizia. Era un’ora di punta, l’attentato ha ucciso 34 civili e ne ha feriti almeno 58.
Poco dopo un’altra autobomba, forse telecomandata o forse guidata da un kamikaze, è esplosa nelle vicinanze, al passaggio di un convoglio umanitario di una organizzazione non governativa turca. Altre cinque persone sono morte.
Gli attentati del 14 aprile sono stati rivendicati dagli estremisti islamici al Shabaab, il movimento antigovernativo legato ad al Qaeda che per anni ha controllato Mogadiscio e gran parte del centro sud della Somalia.
Respinti nel 2011 dai militari inviati dall’Etiopia e dalle truppe africane della missione Amisom, gli al Shabaab, benché abbiano perso alcune delle loro roccaforti, restano una minaccia per la sicurezza e la stabilità del paese che dal 1991 non conosce pace. Uno degli atti terroristici più gravi risale a poco più di un mese fa: il 18 marzo un’autobomba è esplosa vicino al palazzo presidenziale, nei pressi del teatro nazionale, uccidendo dieci persone, alcune delle quali viaggiavano a bordo di un minibus che è stato travolto dall’esplosione.
Un mese prima, il 16 febbraio, era stata la volta di un noto ristorante, il Lido Beach, su una spiaggia molto frequentata. I terroristi si sono serviti ancora una volta di un'autobomba. L’esplosione ha ucciso una persona, ma le vittime avrebbero potuto essere molte di più.
Anche il vicino Kenya sperimenta da anni la violenza dei terroristi: di quelli somali, in particolare, da quando partecipa alle operazioni militari nel sud della Somalia contro al Shabaab. Una vigilanza più serrata da parte delle forze di sicurezza, in occasione delle elezioni generali del 4 marzo, li ha obbligati a una pausa. Ma il 19 aprile c’è stato un assalto notturno a un albergo di Garissa, la capitale del distretto Nordorientale che confina con la Somalia. Le vittime sono almeno cinque, ma secondo alcune fonti potrebbero essere dieci.
Proprio a Garissa, il 18 febbraio, un terrorista era saltato in aria mentre piazzava un ordigno esplosivo in una scuola. Due giorni dopo, il 20 febbraio, a Liboi, una cittadina del distretto Nordorientale a 18 chilometri dalla frontiera con la Somalia, un commando armato attaccava una moschea uccidendo non meno di sette persone.
In Africa il paese che paga il tributo più alto in vittime civili da parte del terrorismo islamico è senza dubbio la Nigeria. Il movimento Boko Haram da solo, dal 2009, si è macchiato di circa 2.000 omicidi. I terroristi agiscono in bar, stazioni di autobus, chiese e non esitano ad attaccare case private: il bersaglio sono soprattutto, ma non solo, i cristiani.
Dalla fine di marzo l’allerta è massima. La polizia esorta a segnalare immediatamente la presenza in chiesa di persone sconosciute alla comunità e a impedire che si introducano telefoni cellulari e altro materiale elettronico che potrebbero essere usati come detonatori.
I paesi più colpiti restano tuttavia quelli islamici: in passato l’Algeria, oggi l’Afghanistan o l’Iraq. In Iraq il 19 aprile sette persone sono state uccise e 34 ferite in attentati dinamitardi compiuti presso due moschee mentre i fedeli lasciavano gli edifici dopo le preghiere del venerdì. Anche prima, ma senz’altro dall’11 settembre 2001, dovunque agiscano, sempre più spesso il bersaglio prescelto dei terroristi sono i civili, non più soltanto vittime occasionali, “effetti collaterali” di chi, nel far guerra ai propri nemici, non esita a sacrificare degli innocenti capitati per caso.
Un conto è attaccare una stazione di polizia, una caserma, persino un’ambasciata. Altra cosa è colpire un ristorante, un mercato, una scuola. È una scelta indicativa del poco o nullo valore, e quindi rispetto, attribuito in certi contesti culturali e sociali alla vita umana, alle persone: un atteggiamento evidenziato dalle molte istituzioni che violano libertà personali e diritti. Sono contesti in cui prevale, per contro, una fedeltà a oltranza alla comunità d’appartenenza – e spesso si tratta di un’appartenenza carnale, definitiva e insostituibile – a cui si associa un’avversione eventualmente estrema, implacabile nei confronti di chi della propria comunità non è parte.
Il solo modo di sconfiggere il terrorismo è rendere fondante il principio che la vita umana è sacra e intangibile, che ogni persona ha valore, dall’inizio fino all’ultimo respiro, in ogni circostanza della sua esistenza, ed è pari a ogni altra per dignità e diritti: è il principio irrinunciabile su cui si è costruito l’Occidente cristiano e che ne fa la stella polare dei diritti umani, inalienabili e universali.